Vi riporto integralmente un articolo di Marco Travaglio. Me lo ha segnalato Caterina (facebook.com/zia.cate), che ringrazio per cotanta gentilezza. E' apparso qualche giorno fa sul Fatto (ilfattoquotidiano.it). Non preoccupatevi, è ancora attualissimo. Tenendo conto che la maggior parte degli italiani vota ancora DC e che l'attuale Governo reppresenta benissimo le scelte elettorali dello stivalotto italico, rileggete tranquillamente questo articolo per i prossimi 50 anni...
Buona lettura!
Andreotti era il simbolo del cinismo al potere, del potere per il
potere, fine a se stesso, del “meglio tirare a campare che tirare le
cuoia”. Un politico convinto dell’irredimibilità della corruzione e
delle collusioni, che usò a piene mani senza mai provare a combatterle.
Eppure, o forse proprio per questo, era il politico più popolare.
Uno
straniero atterrato ieri in Italia da un paese lontano durante la lunga
veglia funebre per Andreotti a reti unificate, vedendo le lacrime e
ascoltando le lodi dei politici democristi e comunisti, berlusconiani e
socialisti, ma anche dei giornalisti e degli intellettuali da riporto di
tutte le tendenze e parrocchie, non può non pensare che l’Italia abbia
perso un grande statista, il miglior politico di tutti i tempi, un padre
della Patria che ha garantito al Paese buongoverno e prosperità, e
ciononostante fu perseguitato con accuse false da un pugno di magistrati
politicizzati, ma alla fine fu riconosciuto innocente e riabilitato
agli occhi di tutti nell’ottica di una finalmente ritrovata
pacificazione nazionale. La verità, naturalmente, è esattamente quella
opposta. Non solo giudiziaria. Ma anche storica e politica.
È raro trovare un politico che ha occupato tante cariche (7 volte
premier, 33 volte ministro, da 13 anni senatore a vita) e ha fatto così
poco per l’Italia: nessuno – diversamente che per gli altri cavalli di
razza Dc, da De Gasperi a Fanfani a Moro – ricorda una sola grande
riforma sociale o economica legata al suo nome, una sola scelta politica
di ampio respiro per cui meriti di essere ricordato. Andreotti era il
simbolo del cinismo al potere, del potere per il potere, fine a se
stesso, del “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Il primo
responsabile, per longevità politica, dello sfascio dei conti pubblici
che ancora paghiamo salato. Un politico buono a nulla, ma pronto a tutto
e capace di tutto. Il principe del trasformismo, che l’aveva portato
con la stessa nonchalance a rappresentare la destra, la sinistra e il
centro della Dc, a presiedere governi di destra ma anche di compromesso
storico, a essere l’uomo degli Usa ma anche degli arabi.
Un politico convinto dell’irredimibilità della corruzione e delle
collusioni, che usò a piene mani senza mai provare a combatterle, perchè
– come diceva Giolitti e come gli suggeriva la natura – “un sarto che
deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche
all’abito”. Eppure, o forse proprio per questo, era il politico più
popolare. Perchè il più somigliante a quell’“italiano medio” che non è
tutto il popolo italiano. Ma ne incarna una bella porzione e al contempo
la tragica maschera caricaturale. Se però Andreotti spaccava gli
italiani, affratellava i politici, che han sempre visto in lui – amici e
nemici – il proprio santo patrono e protettore. La sua falsa
assoluzione, in fondo, era anche la loro assoluzione. Per il passato e
per il futuro.
Per questo, quando le Procure di Palermo e Perugia osarono
processarlo per mafia e il delitto Pecorelli, si ritrovarono contro
tutto il Palazzo. Il massimo che riusciva a balbettare la sinistra era
che, sì, aveva qualche frequentazione discutibile, ma che stile, che
eleganza in quell’aula di tribunale dove non si era sottratto al
processo (il non darsi alla latitanza già diventava un titolo di
merito). Fu parlando del suo processo che B. diede dei “matti,
antropologicamente diversi dalla razza umana” a tutti i giudici. Fu
quando si salvò per prescrizione che Violante criticò l’ex amico Caselli
per averlo processato e la Finocchiaro esultò per l’inesistente
“assoluzione”. Anche i magistrati più furbi e meno “matti”, come Grasso,
si dissociarono dal processo e fecero carriera.
Oggi le stesse alte e medie e basse cariche dello Stato che
l’altroieri piangevano la morte di Agnese Borsellino piangono la morte
di Giulio Andreotti. Ma non è vero che fingano sempre: piangendo
Andreotti, almeno, sono sincere. Enrico Letta, alla notizia che la
Cassazione aveva giudicato Andreotti mafioso almeno fino al 1980, si
abbandonò a pubblici festeggiamenti: “Quante volte da bambino ho sentito
nominare Andreotti a casa di zio Gianni. Era la Presenza e basta,
venerata da tutti. Io avevo una venerazione per questa Icona!”. E giù
lacrime per l’“ingiustizia” subìta dalla venerata Presenza anzi Icona,
fortunatamente “andata a buon fine” tant’è che “siamo tutti qui a
festeggiare” (un mafioso fino al 1980). L’altro giorno Letta jr. è
divenuto presidente del Consiglio. È stato allora che il Divo ha capito
di poter chiudere gli occhi tranquillo.
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