giovedì 31 ottobre 2013

Colpa dell'altro

Visto che oggi è Halloween, pubblico un racconto (inedito) con un po' di sangue. Anche questo da ristemare e, forse, presente nel prossimo libro.


Avevo capito che con il mio fratellino i rapporti non sarebbero mai stati buoni ma speravo di non arrivare a tanto. Lui, il più giovane di noi tre fratelli, era il figlio ideale se un genitore voleva vergognarsi di una sua creatura. Io, avevo 26 anni e quindi nove più di lui. In mezzo c’era una sorella, Agata, di 21 anni. Una persona tanto inutile quanto noiosa. Da tre anni faceva l’impiegata e tra venti avrebbe fatto ancora quel lavoro. Ma torniamo agli unici due figli per cui valga la pena spendere un po’ di parole. Non c’eravamo mai piaciuti, già a partire dalla sua nascita, un freddo mercoledì di dicembre. Quel pomeriggio dovetti rinunciare alla mia lezione di tennis perché nostro papà portò la mamma in ospedale ed io rimasi a casa con mia sorella, che allora ne aveva 4 anni, a fare da baby-sitter. Ne approfittai per iniziarmi ad un passatempo che negli anni successivi mi avrebbe dato parecchie soddisfazioni, fare il violento nei confronti dei miei fratelli più piccoli. In realtà, a parte quel pomeriggio in cui mi esercitai su mia sorella, il resto della mia carriera si sviluppò ed ebbe la maturità sulla pelle di mio fratello. Ma ritorniamo a quel giorno, mia sorella passò tutto il pomeriggio a lamentarsi del perché la mamma non c’era e del perché forse il nuovo fratellino avrebbe dormito in camera con lei e non con me. Per non sbagliare, mi sfogai su di lei per le sue urla e i suoi pianti, e poi per l’altro in arrivo che non mi aveva permesso di andare a tennis. La misi dentro a una bacinella, la più grande che avevamo, lei ci stava comodamente seduta, e con la scusa di lavarla, la bagnai a intermittenza con getti di acqua calda e fredda. Che ridere! Era tutto un urlo quella stronzetta, fui talmente bravo a escogitare quel piano e a metterlo in pratica che nei giorni seguenti nessuno si accorse delle mie malefatte. Né un segno, né un livido, nonostante i venti minuti buoni a far finta di farle la doccia e a tirarle i capelli con la scusa di lavarglieli. Ammetto che ad un certo punto mi venne la voglia di afferrarle la testa e mettergliela sott’acqua ma decisi, evidentemente inconsciamente, viste le mie future performance, che non era ancora arrivato il momento di essere un vero criminale.
Gli anni trascorsero nervosamente passati a fare la guerra a mio fratello. Lui era il fannullone. Io, invece, quello bravo e diligente a scuola. Lui era quello che andava allo stadio e fare bagarre e tafferugli, un vero hooligan, io quello che studiava pianoforte, in realtà per solo otto mesi, e che aveva giocato a tennis, lo sport dell’upper class inglese. Nonostante queste premesso, il nostro rapporto si era basato fin dall’inizio sulla violenza e all’interno delle mura domestiche, il piccolo pivello doveva sottomettersi alla violenza del diligente fratello maggiore. Non mancavo occasione per fargliela pagare di essere venuto al mondo e di aver rotto gli splendidi equilibri famigliari che fino ad allora avevano caratterizzato l’ambiente domestico. Iniziai abbastanza presto col fargliela pagare. Appena Luca, così si chiama mio fratello, fu svezzato e iniziò a mangiare come noi esseri umani. Mi offrivo spesso di imboccarlo, soprattutto quando mamma preparava minestre e cose calde. Nonostante lei si raccomandasse di soffiare e andare cauto su ogni cucchiaiata, io non rispettavo mai questa regola. La controllavo con gli occhi e appena si girava, imboccavo il neonato velocemente e, devo dire la verità, con una certa cattiveria. Una volta papà e mamma furono costretti d’andare all’ospedale perché il moccioso non la smetteva di piangere. Tornarono a casa con la coda tra le gambe perché i dottori li rimproverarono che dovevano stare più attenti. Mio fratello aveva una brutta bruciatura al palato, dovuta sicuramente al cibo. Ricordo che mamma pianse tutta la notte per quel brutto episodio, mentre papà bestemmiava perché al terzo figlio sua moglie non aveva ancora imparato a dar da mangiare senza rischiare di ucciderlo. E con loro, urlavano anche gli altri due, mio fratello per il dolore che evidentemente aveva al palato, mia sorella perché aveva neanche cinque anni ed era impressionata dalla situazione. Io, me la ridevo. Per due motivi, nessuno si era accorto che ero stato io a imboccare mio fratello, il mio piano era andato a buon fine. Quando Luca aveva due anni e mezzo, ne combinai una di bellissima, lo feci cadere dalla finestra della nostra cucina, un piano rialzato, in piscina. L’altezza non era tale da metterlo in pericolo di vita ma il piccolo si impressionò molto, anche perché tempo che uscii di casa per andare a recuperarlo passarono un venti secondi buoni e il pargolo bevve molta acqua. Fatto sta che non imparò mai a nuotare, mentre io iniziai anche un corso di nuoto giusto per far vedere ai miei genitori che figlio perfetto fossi. Ma fuori di casa, come ho già detto, il teppista era lui. Il giovinastro ne combinò già all’asilo, alle elementari era ormai il bullo della classe, riconosciuto unanimemente da tutto il corpo insegnante, ma puntualmente quando tornava a casa se le beccava da me o per colpa mia. Un giorno, dopo essermi esercitato non poco, scrissi sui miei libri delle bestemmie. Ovviamente non con la mia grafia ma con la sua, o almeno provai ad imitarla. Feci presente ai miei che il settenne mi aveva scritto delle bestemmie sui libri e come risultato vidi mio fratello massacrato di botte da mio padre, il quale non era certo il credente praticante perfetto, però da buon uomo pratico, considerava le bestemmie tanto utili nella vita di tutti i giorni da non poter essere sprecate su di un libro. E in ogni caso, mio fratello aveva 7 anni e mio papà continuava a ripetergli che un bambino così piccolo non poteva bestemmiare. Provò a dirmi che nei giorni seguenti avrebbe parlato e convinto la mamma che ero stato io a scrivermi quelle schifezze ma gli giurai che lo avrei portato in piscina con me e questo lo convinse a stare in silenzio. Devo dire che la trovata del volo in piscina e la sua conseguente fobia per l’acqua fu un asso nella manica che usai più volte negli anni. Gli anni trascorsero così, almeno una violenza la settimana, piccola o grande che fosse. La feci franca sempre, anche quella volta che mentre dormiva gli strappai i peli delle gambe con la ceretta. Si svegliò di soprassalto proprio mentre strappavo la fascetta che gli avevo applicato alla gamba. Aveva 13 anni ed era ben messo con i peli delle gambe. Il giorno dopo andò al mare con i suoi amici e la sua ragazza, con la gamba destra completamente segnata e rossa. Non so quale scusa trovò con gli amici, ai genitori raccontò che andò a sbattere contro uno scoglio. Di sicuro per un po’ di tempo girò la voce che fosse una mezza checca per via del fatto che aveva provato a depilarsi le gambe. So per certo che picchiò un paio di suoi amici per aver messo in giro quella voce, a me neanche disse nulla. Soffriva in silenzio. Il giorno del suo quindicesimo compleanno gli ruppi il setto nasale spingendoli la testa addosso all’albero di natale. Devo dire che in quell’occasione fu molto sfortunato perché l’albero di per sé non era così pericoloso da fargli così tanto male, ma lo sventurato per evitare di andare addosso all’albero, finì proprio sulla base metallica del nostro bell’abete di plastica comprato al supermercato. Cadde così violentemente che la botta gli procurò la frattura del setto nasale e due giorni di ricovero. Non fu però la prima frattura che gli provocai, perché già un’altra volta lo mandai all’ospedale con un risultato simile. Eravamo in montagna, lui avrà avuto un otto o nove anni ed io quindi il doppio, eravamo andati un week end tutti e cinque a sciare. Non persi la mia grande opportunità, alla prima occasione buona, dopo che mio fratello aveva fatto la sua prima discesa tutta da solo, lo spinsi a tradimento giù per un fuori pista. Mentre si girava a guardarmi terrorizzato i suoi occhi erano pieni di panico e impotenti per quello che gli sarebbe potuto succedere. Ritengo che lui pensasse di morire e forse anche mi implorò di aiutarlo, ben sapendo che lo avevo spinto apposta e che il mio aiuto non lo avrebbe mai avuto. La sua corsa finì nei pressi di un grande abete, la cui consistenza fu provata dal ginocchio della gamba sinistra, ma tutto sommato con poche conseguenze, contusione con relativo ematoma, il tutto guaribile in dieci giorni. Il vero problema lo ebbe con la frattura di due dita della mano destra, all’anulare e al mignolo con necessaria una capatina in sala operatoria per risistemare le articolazioni. Risultato, week end finito e altri due mesi a ospedali. Quella fu l’unica volta in cui mi sentii cattivo con mio fratello ma fu anche l’unica volta in cui capii come dovevano sentirsi i bimbetti più piccoli che mio fratello metteva sotto a scuola. Probabilmente, dentro di sé, li chiamava tutti con il mio nome.   
Così, tra mille cattiverie mie nei suoi confronti, ma anche un ottimo diploma al liceo e la conseguente laurea, per non parlare dei buoni risultati sportivi, e le sue performance da stupido adolescente in giro per il mondo, arriviamo a tre settimane fa. L’antefatto è la visita dei miei ai futuri suoceri, genitori del futuro marito di mia sorella. Abitando a cinquanta chilometri da casa nostra ed essendo i miei stati invitati per cena, partirono più o meno al tramonto, verso le sei e mezza. Restammo a casa solo io e lui. Avevo in programma d’uscire ma solo dopo cena. Lui sarebbe probabilmente rimasto a casa a vedere qualche porno al pc. Mi ritrovai improvvisamente vicino a lui, eravamo in cucina, non so perché andai dalla camera alla cucina così repentinamente, forse il mio istinto mi aveva guidato. Fatto sta che appena lo vidi capii subito cosa avrei dovuto fare e lo feci. Presi in mano la grattugia che stava sullo scola piatti e mi avvicinai a lui che girato di spalle, evidentemente stava cercando qualcosa in dispensa. Mi mossi con uno scatto felino e mentre lui si girava verso di me, partii con la grattugia verso il suo viso. I due colpi furono eseguiti ad opera d’arte. In ginocchio, madido di sudore e piagnucolante, non potevo credere a quanto successo. Il pivello mi anticipò, teneva in mano un lungo coltello da cucina, con il quale mi ferì molto profondamente entrambi i polsi. Ero disteso in un bagno di sangue, non riuscivo a muovere le mano per via dei tendini lacerati. Penso sia stato lui a chiamare l’ambulanza e poi successivamente ad aprire la porta. Mi trovarono piagnucolante e con le mani completamente immobili. Probabilmente mi era anche salita la febbre e vomitai. Non ricordo altro.
Passai dieci giorni all’ospedale, i medici fecero un gran lavoro e nel giro di qualche mese dissero che avrei riacquistato quasi completamente l’uso completo delle mani. I tendini ebbero delle lacerazioni importanti ma, un po’ la bravura dei dottori e un po’ la rapidità dei soccorsi, salvarono quasi totalmente le mia mani. In un certo senso dovetti essere grato a mio fratello per aver chiamato subito i soccorsi. Ripeto, penso sia stato lui. La sorpresa più grande fu scoprire che mio fratello spiegò per filo e per segno, prima ai medici e poi ai miei genitori, come avevo cercato di suicidarmi. Esattamente da ventuno giorni sono così sotto sedativi e in cura da un paio di strizzacervelli. Il pivello mi aveva fregato, aveva convinto tutti che fossi malato e che avessi cercato la morte, per disperazione. Sentivo i miei chiacchierare in corridoio, mio padre diceva che era normale avessi fatto una cosa così con quel fratello screanzato e delinquente che mi trovavo, mia madre lo sostenne dicendo che sì, era colpa dell’ altro.

lunedì 28 ottobre 2013

Su cosa dovrebbe essere lo sport

Per dare ancora più chiarezza su cosa dovrebbe essere lo sport e che invece non è leggetevi questi due articoli. D'altronde l'Italia dovrebbe essere un Paese e non un paese, ma non lo siamo un Paese. Quindi ci meritiamo tutto questo. La cosa che più mi dà fastidio è che le persone inorridiscono quando leggono questi articoli, per poi avere, spesso ma per fortuna non sempre, atteggiamenti molti simili a quelli descritti negli articoli. Vi assicuro che ci si sente impotenti nei confronti di questi genitori, e una parte di chi vive nel mondo dello sport non è così diverso da questi genitori.

Lasciami giocare
Non hai passato la palla

sabato 26 ottobre 2013

Voglio per forza un figlio fenomeno

Riporto integralmente un articolo de repubblica.it. Articolo da sottoscrivere in pieno. In particolare vi invito a leggere le parole di un grande del basket giovanile italiano, Giordano Consolini, oltre alle dichiarazioni di Devis Mangia, allenatore di serie A ed ex allenatore delle nazionali giovanili. La mia unica considerazione è che il problema è sempre e comunque culturale.
Buona lettura.

Andate a vedere un torneo under 10 di tennis. Fanno spavento. Sono alti poco più della rete e tirano certe botte impressionanti, per potenza e precisione. Se di là ci fosse Peppa Pig la vorrebbero morta. Sono prodigiosi in modo tenero e sconcertante. Non sorridono mai. Si allenano fino a sedici ore alla settimana, in quarta o quinta elementare, per quella partita del weekend. E se sbagliano un colpo, spesso vedrete questi Federer e Sharapova miniaturizzati guardare subito papà o mamma. Seduti su quelle tribune dove tanti genitori fanno molto più spavento di loro. "La mia squadra ideale è una squadra di orfani" è la vecchia battuta che gira tra allenatori. Un paradosso, ovviamente, come sono paradossali i casi di genitori aguzzini, disposti a tutto pur di vedere un figlio campione, che finiscono sui giornali. Ma la normalità che non fa più notizia è fatta di risse a bordocampo alle partite dei ragazzini, arbitri insultati e aggrediti, allenatori contestati. Ogni maledetta domenica, e il sabato pure. Qualsiasi istruttore giovanile, di qualsiasi sport, sa che una parte importante e difficile del suo lavoro è "allenare" i genitori. La linea di campo tra gioco e stress per il bambino è sottile, quanto quella tra il buon genitore che si limita a far capire l'importanza formativa della disciplina e dell'impegno e quello che invece invade, soffoca, s'arrabbia, giustifica, pretende. "L'influenza negativa della famiglia è il nocciolo del problema" dice il pedagogo Emanuele Isidori, docente di etica e filosofia dello sport. "Troppi genitori proiettano sui loro figli le proprie frustrazioni e aspettative, caricandoli di ansie deleterie. Da una nostra ricerca del 2009 risulta che tra gli 8 e i 12 anni la maggioranza dei bambini pratica sport per vincere, come principale motivazione: questo è grave". Il caso Agassi ha fatto letteratura: il suo best seller Open ha alzato un velo sulle torture psicologiche subite dal padre. Lui però almeno è diventato Agassi. Uno su quanti? Nel calcio, in serie A arriva uno su cinquemila. "I genitori più pericolosi e invadenti sono quelli che non si sentono realizzati e hanno meno cose da fare nella vita" sostiene Isabella Gasperini, psicoterapeuta dell'età evolutiva che collabora con varie squadre di calcio. "E in dieci anni la situazione è peggiorata di pari passo con l'aberrazione del calcio professionistico. Senti questi genitori parlare delle partite dei figli come se fosse serie A: la tattica, il mister... Purtroppo avvertire che questi comportamenti fanno solo danni è inutile: sono meccanismi involontari. Quello che cerco di far capire è che i bisogni dei bambini sono diversi dai loro. I bambini accettano l'errore e il fatto che un altro sia più bravo come una cosa naturale, e invece li vedi costretti a impegnarsi per realizzare i sogni dei genitori dietro la rete secondo un loro tacito e insano accordo. Vanno invece lasciati liberi: di sbagliare, di creare, di calciare come gli viene, di sdraiarsi a guardare il cielo se non hanno voglia di correre, di seguire l'istinto. Liberi anche di assumere le proprie responsabilità e di cavarsela da soli, se un compagno gli ha messo le scarpette sotto la doccia ". Giordano Consolini, responsabile del settore giovanile della Virtus Bologna, uno dei più titolati vivai del basket italiano, osserva: "Ci sono famiglie che combinano disastri. Un esempio: siamo andati a giocare le finali nazionali under 17 con due ragazzi, amici d'infanzia, che non si parlavano più e non si passavano neanche più la palla per questioni di invidie tra famiglie. Roba di convocazioni in Nazionale e premi che uno aveva ricevuto e l'altro no. I due ragazzi li ho messi in camera assieme, ci ho parlato, ho ottenuto che almeno si rispettassero in campo e abbiamo vinto quello scudetto. Ma con le famiglie i risultati sono stati scarsi, non hanno cambiato atteggiamento. Figurarsi quando subentrano anche i procuratori. Purtroppo molti genitori provocano la cosiddetta "sindrome da campione": il ragazzo viene sopravvalutato, si sente già arrivato e si blocca il processo di crescita. Considera che sia tutto scontato e dovuto, pensa solo che gli basti far passare il tempo e andrà nella Nba. È come se entrasse in una realtà virtuale e non considera più l'opzione dell'insuccesso: se arriva una sconfitta la vive come un fattore imprevedibile, non trova una via d'uscita, resta disarmato perché è stato programmato solo per vincere. Ed è difficile a quel punto farsi ascoltare. Perché è più comodo dar retta a chi ti regala un alibi dando la colpa a un altro: all'ambiente, al tecnico, ai compagni, agli arbitri. Il talento non basta per diventare giocatori". La mala educación tocca l'apoteosi intorno al campo da calcio, dove rispetto ad altri sport il miraggio di ricchezza è più abbacinante. "Quando i genitori vedono il bambino solo come una possibile fonte di guadagno, è finita - dice Devis Mangia, ex ct dell'Under 21 - . Tutti pensano di avere il campione in casa. Quando un ragazzino si comporta male costa meno fatica etichettarlo come piantagrane e abbandonarlo al suo destino, mentre parlandoci si scoprono spesso situazioni famigliari alle spalle che spiegano gli atteggiamenti deviati. Ma, al contrario di quanto si possa credere, non è detto che subisca maggiori pressioni chi viene da contesti culturali e sociali inferiori, dove un contratto da professionista potrebbe rappresentare una svolta per tutta la famiglia". Lo conferma anche Roberto Meneschincheri, responsabile dell'attività agonistica under 16 dello storico Tennis Club Parioli di Roma, il circolo che ha sfornato Pietrangeli, Panatta e Barazzutti: ultimo titolo vinto, il campionato italiano under 12 femminile. "È questione di istinto e carattere, non di denaro o laurea: i genitori troppo pressanti che chiedono ai figli solo il risultato sono molto diffusi. Col dialogo di solito si riesce a ottenere collaborazione, a far capire che non va data troppa importanza alla partita e a evitare così interferenze o intemperanze durante il gioco". Molte società fissano un decalogo dell'ovvio. Sdrammatizzate, incoraggiate, esaltate i risultati positivi e alleggerite le sconfitte, non entrate in campo e negli spogliatoi, lasciate che la borsa se la portino da soli, non discutete con l'allenatore di schemi e ruoli, rispettate gli arbitri, non parlate male al ragazzo del suo allenatore e dei suoi compagni. Eccetera. Ma il pedagogo Isidori non assolve nemmeno le società: "Dicono pensate a divertirvi ma il messaggio che di fatto viene trasmesso implicitamente dal sistema è un altro: conta solo vincere. Accade perché è completamente sbagliato il modello del Coni: le federazioni per avere soldi devono portare risultati. In Italia manca educazione sportiva perché non esiste lo sport per tutti: gratuito". Lo stereotipo di madre italica che segue con apprensione il bambino sulle macchinine a gettone dei parchi, va fortemente in crisi davanti alla storia di Mattia Caminiti, anni otto, che, come altri coetanei, corre a cento all'ora sui go kart. Figlio di Andrea, ex tennista, e Nicoletta, ex ciclista professionista: un paio di volte alla settimana lo passa a prendere il meccanico e lo porta sulla pista di Jesolo. Nei weekend tutta la famiglia invece parte in camper per seguirlo sui vari circuiti. "Gli abbiamo fatto provare calcio, basket, nuoto, tennis, ma Mattia vuol fare quello, non c'è verso, ed è molto bravo - racconta il papà - . Corre da quando aveva meno di quattro anni. Gli viene naturale, non si rende neanche conto di come. Nessuno lo obbliga". È uno sport molto costoso: ogni anno partono dai 15 ai 25mila euro, quindi servono conti solidi (mamma ha una fabbrica di lampadari) e sponsor. Il papà ha una web agency e ha creato un blog per MattiRed. "Ci sono altre famiglie che fanno i debiti per far correre i figli di nove anni, ci investono e nutrono speranze. Così nove adulti su dieci dell'ambiente si stupiscono che Mattia si diverta sul serio". Guardate una gara su www. easykart.it sembra un videogame per topi. Chissà se ridono, dentro quei caschi enormi.

giovedì 24 ottobre 2013

Siamo acqua per la morte

Oggi posto una poesia che il sito prosaepoesia.net ha appena pubblicato, l'opera è tratta da La fatica di non pensare (edizionidelfaro.it/lafaticadinonpensare).
Vi chiedo cortesemente di mettere il vostro I LIKE e di condividere la poesia nei social. Se poi vi avanza un po' di tempo fatevi follewer di questo blog. Gracias
 
Ho trascurato di scrivere un sogno.
La morte vede nascere un’anima
e già sa che un  giorno sarà sua.
Questo mio sogno dimenticato
si è perso nel cielo
dei desideri.
Ho parlato ad un albero,
gli ho chiesto se è così difficile
non poter
fuggire via.
Non mi ha risposto.
Dalla finestra entrano uomini
ma non sanno vedermi.

martedì 22 ottobre 2013

Te lo griderò

La mia ultima poesia, ancora da sistemare. Intanto la condivido nel post.



Lo scrittore era seduto sotto il poggiolo
della sua casa al mare.
Fumava il sigaro, mentre il caldo vento
africano gli scaldava la faccia.
E pensava che senso avesse capire,
meglio il dolore.
Più vero e
se non ti rende matto
forse ti fortifica.

La sentiva più vicina
anche se lei vicina
non voleva esserlo.
Lo scrittore si guardò la mano destra
e pensò che la felicità era
dell’altra parte della sua vita.

Pensò, tra sé e sé,
ma parlando a lei.
Tu dimmi se mi credi
dimmi se credi che
a volte
non sia la scrittore a scrivere
ma siano le parole a cercarlo.
E’ la verità. Ma non posso spiegartelo.
Che poi è come vivere un sogno ad occhi aperti
e se lo vivi di notte
ci vedi lo stesso.
E questa è la differenza tra una persona
e uno scrittore.
Solo gli stolti non dormono mai.

Per un attimo
la felicità
gli sfiorò la mano.

lunedì 21 ottobre 2013

Vidi

Dopo qualche giorno di pausa dal blog, oggi posto una poesia che il sito prosaepoesia.net ha pubblicato la scorsa settimana, l'opera è tratta da La fatica di non pensare (edizionidelfaro.it/lafaticadinonpensare).
Vi chiedo cortesemente di mettere il vostro I LIKE e di condividere la poesia nei social. Se poi vi avanza un po' di tempo fatevi follewer di questo blog. Gracias
 
 
Vidi
quel dolce corpo
di fanciulla cadere.
Piansi,
vedendo
svanire
quel suo triste sorriso.
Afferrai
quegl’attimi tristi
ne bevvi il succo amaro.
Sono
un gelido vento:
dove potrò fermarmi?

giovedì 17 ottobre 2013

E se lo voglio diventare?

Nel post precedente avevo fatto riflettere su certe "esigenze" dei genitori nei confronti dei figli che fanno sport. In questo articolo, che riporto completamente (corriere.it/sportvincereodivertirsi), una risposta indiretta dei figli.
Buona lettura!


Sport per… vincere o per divertirsi? Su questa domanda “secolare” gli adolescenti italiani si dividono praticamente in due: il 45% considera “il vincere” quasi una sorta di accessorio, mentre il 55% sostiene (sia pure con varia intensità) che vincere è la vera essenza dello sport. Significative, comunque, le differenze di atteggiamento in base al sesso: la maggioranza delle ragazze (57%) è decisamente di indole decubertiana (l’importante è partecipare), (contro il 35% dei maschi), mentre a sostenere che la vittoria è in assoluto la cosa più importante dello sport è il 14% dei maschi contro appena il 3% delle femmine.
I DATI - I dati, presentati mercoledì al convegno “Adolescenza e Sport”, organizzato dall’Università di Pavia, provengono dall’indagine Adolescenti e Socialità, realizzata dalla SIMA (Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza) e dalla Associazione Laboratorio Adolescenza su un campione nazionale di 2000 studenti di terza media. E nello spaccato dell’adolescente in tuta e scarpette, fornito dall’indagine, si sono analizzati anche gli aspetti legati agli infortuni sportivi. Ad aver subito almeno un infortunio (grave o leggero) praticando sport è risultato essere oltre il 60% del campione (71% dei maschi), mentre il 26% (36% dei maschi) ha risposto di averne subiti più di uno.
INFORTUNI - Calcio e basket sono gli sport nei quali il tasso di infortuni è risultato più alto. Quasi la totalità di chi pratica questi sport ha dichiarato, infatti, che praticandoli ha subito l’infortunio da lui considerato più grave. Seguono, a notevole distanza, danza, ciclismo e atletica leggera. Limitando l’indicazione all’infortunio più grave subito, per il 25% si è trattato di una frattura, per il 20% di uno stiramento muscolare, per il 19% di una distorsione e per il 12% di una ferita. Circa le conseguenza degli infortuni sul proseguimento dell’attività sportiva, l’84,4% non ne ha avute e ha ripreso a praticare normalmente il medesimo sport, mentre il 6,7% ha cambiato sport e il 4% ha smesso di praticare qualunque attività sportiva. Il tasso di infortuni non sorprende Marita Gualea, del Centro Interdipartimentale di Biologia e Medicina dello sport dell’Università di Pavia, che lo considera assolutamente fisiologico, anche tenendo presente che nel computo non sono stati indicati solo gli infortuni gravi.
RISCHI DELL’IPERALLENAMENTO - Ciò che invece preoccupa l’esperta è, più in generale, il disequilibrio “quantitativo” che si registra, negli adolescenti, tra chi fa sport e chi non lo fa: «In Italia – spiega la Gualea - da un lato c’è una percentuale troppo elevata di adolescenti che non pratica sport o lo pratica in quantità del tutto insufficiente rispetto alle esigenze dell’età (i dati dell’indagine SIMA parlano di oltre il 30% n.d.r.), mentre all’altro estremo osserviamo un eccesso di sport altrettanto dannoso. Un esempio per tutti è rappresentato dai casi, non rari, di ipertrofia cardiaca nei giovani atleti causata proprio dall’iperallenamento. Sport sì, quindi, ma nelle dosi giuste e, soprattutto, con la mentalità giusta. Non è confortante, infatti, il dato che emerge dall’indagine secondo cui oltre il 20% degli adolescenti intervistati considera accettabile prendere integratori o medicinali per migliorare le proprie prestazioni sportive. Dato che - lo conferma l’Osservatorio sull’Adolescenza che la Società Italiana di Pediatria porta avanti da oltre 15 anni - è in sensibile aumento. Dell’importanza di un corretto approccio allo sport, sia qualitativo che quantitativo, ne sono assolutamente convinti i pediatri, specie considerando che lo stile di vita dell’infanzia e dell’adolescenza è, oggi, molto più sedentario rispetto al passato: «Per la rilevanza e l’attualità dell’argomento – sottolinea il Presidente della Società Italiana di Pediatria, Giovanni Corsello, - quest’anno abbiamo voluto dedicare gli “Stati Generali” della pediatria italiana, che si terranno il prossimo 20 novembre, proprio allo sport e alla attività fisico motoria di bambini e adolescenti».
SPORT PER TUTTI - Ma fare sport fa bene a tutti? Gian Luigi Marseglia, Direttore della Clinica Pediatrica dell’Università di Pavia, spiega: «Sono rari i casi in cui lo sport debba essere completamente vietato, ma per bambini e ragazzi che soffrono di qualche patologia occorre attenersi scrupolosamente alle indicazioni del pediatra. Vanno comunque sfatati molti pregiudizi che c’erano in passato. Anni fa, ad esempio, esisteva la convinzione che i bambini e gli adolescenti affetti da asma non dovessero praticare alcuna attività sportiva. C’era nei loro confronti, da parte dei familiari, e qualche volta anche su consiglio medico, un atteggiamento di eccessiva protezione e tutto ciò che era “movimento” era considerato una potenziale causa di asma. Oggi invece – prosegue Marseglia – sappiamo che far praticare sport ad un soggetto asmatico (scegliendo quegli sport – come ad esempio nuoto, sci di fondo, ginnastica artistica - che coinvolgono in maniera continuativa e regolare i muscoli respiratori) produce benefici non solo di natura fisica (aumento della tolleranza allo sforzo, miglioramento del quadro clinico), ma anche psicologica, perché fa aumentare la fiducia in sé stessi e favorisce una maggiore indipendenza sociale». L’impatto psicologico positivo che lo sport ha su un adolescente è, ovviamente, a beneficio di tutti. «In una età in cui il rapporto con il proprio corpo che cambia repentinamente è spesso fonte di disagio – osserva Alessandra Marazzani, psicologa di Laboratorio Adolescenza - lo sport offre alle ragazze a ai ragazzi la possibilità di vivere questa trasformazione in modo più aperto e sereno, perché accedere al proprio corpo che cambia attraverso lo sport fa sì che ciò avvenga con meno imbarazzi o giudizi negativi».

martedì 15 ottobre 2013

Mio figlio è un campione

Riporto quasi completamente un articolo apparso ieri su Repubblica, l'articolo completo è questo: repubblica.it/scuolecalcio. Non voglio fare polemiche nei confronti del pianeta calcio, nel basket il fenomeno di cui si parla è più limitato perché ci sono meno soldi e, lo spero tanto, perché c'è un po' più di cultura. Non ho scritto cultura sportiva perché lo sport è cultura, ebbene sì!
La mia riflessione quindi non va  fatta nei confronti delle scuole calcio, ma nei confronti dei genitori. E la riflessione vale non solo per il calcio. Siete consapevoli che state vendendo sogni, spesso inutili, ai vostri figli? Perché quando si parla di sport perdete la lucidità mentale e pretendete che vostro figlio sia un campione? La sport ha soprattutto altri significati. Nell'articolo si parla di successo facile, forse è questa la risposta...
Buona lettura.





I bambini fanno sogni di cuoio. Guardano il pallone come una sfera di cristallo, ci leggono un futuro da star: una maglia importante, una fascia sul braccio, uno stadio in adorazione. Ma la realtà è spietata come un numero. C'è un esercito di minicalciatori con aspirazioni da grandi, 300mila soldatini nelle categorie più piccole del pallone, quelle che hanno nomi da peluche, piccoli amici e pulcini. Solo uno su 4-5mila arriverà a esordire in A, dove negli ultimi dieci anni hanno messo piede per la prima volta appena 622 ragazzi cresciuti nel vivaio e il trend è in calo (solo 36 l'anno scorso). La regola è che quel manipolo di aspiranti eroi, con la maglia sempre un po' troppo larga, finirà a fare altro: meccanico, panettiere, impiegato, ragioniere. Sognando Beckham, ti ritrovi a lavorare al catasto. Alla partenza, l'ambizione di tutti è l'azzurro e alimenta il business delle scuole calcio: 7.189 in Italia, numero impressionante se paragonato alle scuole medie (8mila) o elementari (16mila). Le rette annuali variano da 300 a 900 euro e garantiscono ai gestori ricavi a molti zeri. Realtà spesso piccole, che contribuiscono alla formazione e alla crescita dei bimbi. Antonio Piccolo, istruttore della scuola calcio Arci Scampia (tre campi in erba sintetica, 500 iscritti), spiega: "Ai ragazzi meno bravi non bisogna bruciare i sogni, ma neppure alimentare false illusioni. Bisogna insegnare loro che nella vita c'è altro: lo studio, il lavoro, essere cittadini migliori. Hanno come riferimento la tv, i milioni di Balotelli. Giocano perché vogliono arrivare, sono sempre meno quelli che lo fanno per divertirsi. Invece il calcio è bello perché hai degli obiettivi condivisi con un gruppo di compagni, perché dà emozioni anche in Eccellenza, in Promozione, la domenica con gli amici. È legittimo sognare, ma i ragazzi vanno protetti. Prima di tutto da madri e padri, che spesso invece cercano il riscatto della loro vita attraverso i bambini. Poi dai personaggi che s'aggirano per i campi: qui tutti sono agenti Fifa, tutti avvicinano i genitori, tutti fanno i talent scout. In un quartiere come il nostro, abbiamo un dovere in più". Le accademie si dividono su tre livelli qualitativi. Il 73% sono centri di base. Per avere lo status di scuola calcio "riconosciuta" servono tecnici qualificati, un medico, strutture adeguate (24% del totale). Più in alto ancora ci sono le scuole calcio "specializzate" (232, il 3%): hanno convenzioni con istituti scolastici e uno psicologo che incontra genitori, istruttori, dirigenti. Spiega il professor Alberto Cei, psicologo dello sport: "La difficoltà maggiore per le società è gestire i genitori. Finché i bambini hanno 8-9 anni, tutto tranquillo. Poi, cresce l'ansia di avere in casa il nuovo Totti e persino i nonni cominciano a lamentarsi. Protestano se il bimbo gioca in una squadra mista, con le bambine, pensano "proprio a me?". Gli incontri con lo psicologo servono a creare un clima positivo, a elevare la qualità dell'insegnamento". Per diventare istruttori, bastano la terza media, un corso di 80 ore, una tesina e un test finale, ma la maggioranza dei tecnici in Italia (14mila su 20mila) ha un patentino Uefa B, utile anche per allenare in serie D. L'Assoallenatori ha istituito corsi sperimentali specifici per i vivai e propone di renderli obbligatori: i grandi tecnici, insomma, dovrebbero prima imparare a lavorare con i ragazzi. "Gli psicologi - prosegue Cei - osservano in partita il comportamento degli istruttori e ne compilano un'analisi, ad esempio valutano se dopo l'errore di un bambino il tecnico dà istruzioni, rimprovera, incoraggia, ignora, oppure con quanti ragazzi si ferma a dare spiegazioni". Dai primi calci alla squadra vera la strada è un imbuto. Nella fascia 11-12 anni, categoria Esordienti, giocano 150mila tesserati, il 26% della popolazione maschile in questa fascia d'età. Nel campionato Allievi, 16 anni, ne restano 70mila, meno della metà. Scrematura lenta e inesorabile. Del gruppone partito con l'iscrizione a una scuola calcio e tante speranze, tre su quattro si arrendono molto prima dell'adolescenza. Da bambini è facile trovare una maglia e un po' di spazio: basta pagare. Quando il gioco si fa serio, restano i più bravi. Mino Favini, responsabile del settore giovanile dell'Atalanta, lavora sui ragazzi da quasi 40 anni: "Il nostro è un caso particolare, ne abbiamo in prima squadra sette che qui sono arrivati bimbi. Ma nel complesso la selezione è durissima. Prima di tutto ci vuole un po' di talento, e quello non si insegna. Poi, c'è un percorso di formazione complesso: la crescita fisica la decide il Padreterno, quella atletica, tecnica e tattica, cioè la definizione del ruolo, dipende dal lavoro negli anni. Infine c'è il carattere: bisogna dimostrare di avere intensità agonistica, spirito di sacrificio, capacità di stare nel gruppo. Solo chi soddisfa tutti i requisiti ce la fa. Rispetto a dieci o vent'anni fa, i ragazzi hanno più distrazioni, faticano a concentrarsi sull'obiettivo, vogliono il successo facile. E poi ci sono elementi di disturbo, dai sedicenti procuratori alle famiglie: sapeste come sono terribili le mamme". Nel calcio del Duemila, muscoli e centimetri vengono preferiti alla qualità. Il presidente del settore tecnico, Gianni Rivera, ricorda che "l'errore dei vivai è selezionare i giocatori solo sul fisico, bisogna riscoprire la tecnica". Curiosamente, la stragrande maggioranza dei giocatori italiani è nata nel primo semestre dell'anno, dato evocativo di pericolosi criteri di selezione, all'interno di una classe, basata sulla maturazione fisica. "Ha ragione Rivera - annuisce Favini - ormai in Italia la scelta dei ragazzi si fa solo sull'altezza e la corporatura, io penso che bisogna riportare l'attenzione sul talento, sulla capacità naturale di toccare la palla, che si scopre da bambino". C'è infine il limbo di quelli che ottengono un contratto da professionista, ma non girano in Ferrari. Su 13mila calciatori, nove su dieci non dichiarano più di 35mila euro lordi all'anno e 2.547 sono sotto i 5mila. Ci sono mestieri e paghe peggiori, per carità. Ma quelli almeno durano una vita.





lunedì 14 ottobre 2013

Come quell'altra volta

Piccola lettera all'SS Erich Priebke, con un certo rancore.

Ti auguro finisca come quell'altra volta, come ai funerali di Gatsby. E sai perché te lo auguro? Perché eravate uguali, entrambi già sconfitti alla partenza. Lui, che ha saputo conquistarsi tutte le persone, con mezzi leciti e non, e poi la ricchezza, la rispettabilità e il potere. Tu, che hai saputo conquistarti l'odio, ma anche il rispetto della tua parte, e la vergogna da parte da parte dell'umanità. Entrambi aridi e sterili, non avete arricchito l'essere umano. Questo è il motivo per cui siete due sconfitti.
Ti auguro un funerale come Gatsby, con la pioggia e con poca gente. Magari nessuno. Ti auguro di essere dimenticato nel giorno del tuo funerale. Siete stati entrambi il ritratto della vostra epoca, lui, Gatsby, eccellente rappresentante del rampollo americano prima della Grande Depressione. Tu, la perfida SS, coprotagonista di una tragedia umana. E il vero dramma è che una parte degli uomini era, è e sarà come te. Non meriti rispetto, neanche da morto.

venerdì 11 ottobre 2013

2 agosto 2002

Oggi posto una poesia che il sito prosaepoesia.net ha pubblicato questa settimana, l'opera è tratta da La fatica di non pensare (edizionidelfaro.it/lafaticadinonpensare).
Vi chiedo cortesemente di mettere il vostro I LIKE e di condividere la poesia nei social. Se poi vi avanza un po' di tempo fatevi follewer di questo blog. Gracias


Oggi, 2 agosto
duemiladue.
Nur Pansiyon,
Selçuk.
Potrei scrivere
l’inizio di tutto quello
che farò
da qui al 2027.
Ma preferisco restarmene qui
disteso su un letto
con quattro
cuscini di stile vagamente orientale.
Tutto attorno tappeti, divani, candele, vasi.
Proprio un bel salottino.
Noi siamo arrivati
ma le valigie no.
Arriveranno.

martedì 8 ottobre 2013

Con la cultura non si mangia

Riprendo la frase del fulgido ex ministro Tremonti che, per giustificare i suoi tagli, il titolare dell’Economia scelse siffatto spot. Letta, nei suoi primi giorni a Palazzo Chigi, fece questa promessa: “Se ci saranno altri tagli, mi dimetto”. Non che ci sia più granché da tirar via. Il bilancio del ministero è passato dai 2,7 miliardi di € del 2001 (lo 0,37% del bilancio totale dello stato) a 1,5 miliardi previsti per il 2013 (appena lo 0,2% del bilancio dello Stato). Per il  il budget del Mibac è un terzo di quello dell’omologo ministero francese (circa 4 miliardi) e corrisponde allo 0,11% del Pil (in Francia è lo 0,24). La cultura, in Italia, pesa sempre meno. Secondo il rapporto annuale 2013 di Federculture, dal 2008 a oggi il settore culturale ha perso in tutto 1,3 miliardi di euro tra risorse pubbliche e private. Investimenti che sono venuti a mancare a livello centrale e a livello di enti locali. Nel 2008 i comuni spendevano in cultura 2,4 miliardi di €, scesi a 2,1 nel 2011. Così come le provincie, nello stesso periodo, sono passate da 295 milioni a 213. In Paese governato da caste, direi che il mezzo più importante per il progresso, cioè la cultura, è "leggermente" messo da parte...
Mi sono documentato leggendo questo articolo: ilfattoquotidiano/conculturanonsimangia.

sabato 5 ottobre 2013

American Ciacoe at Fishmarket

Il 24 ottobre ritornano i live di American Ciacoe (facebook/AmericanCiacoe), un viaggio musicalculturale negli States nel ventesimo secolo. Saremo ospiti al Fishmarket di Padova: facebook/fishmarket. Altre date sono in programmazione, fermento culturale...



giovedì 3 ottobre 2013

Paradiso per illusi

Anche oggi il sito prosaepoesia.net ha pubblicato una mia poesia, l'opera è tratta da La fatica di non pensare (edizionidelfaro.it/lafaticadinonpensare), che leggete qui sotto.
Vi chiedo cortesemente di mettere il vostro I LIKE e di condividere la poesia nei social. Se poi vi avanza un po' di tempo fatevi follewer di questo blog. Gracias.
 
 
Paradiso per illusi:
al silenzio parlano
le nostre bocche.
Il silenzio parla
sotto il bavaglio
a noi che siamo
affamati di dolore,
mai sazi di sofferenze:
perversione cosmica dei nostri sentimenti.

martedì 1 ottobre 2013

Autocelebrazione

Dopo la pausa settembrina, a breve riprenderò la promozione de La fatica di non pensare - edizionidelfaro.it/lafaticadinonpensare. Sarò ospite, a partire da questo mese di ottobre, in vari eventi tra il Veneto, il Friuli e l'Emilia Romagna.
Vi terrò aggiornati, intanto leggetevi  un po' di materiale non ancora edito, la bellissima recensione che ha fatto Fabrizio Carollo (www.fabriziocarollo.it) per il portale www.bolognaplanet.it de La fatica:recensione/Fatica. Vi faccio leggere anche una mia poesia che a pubblicizzato recentemente il sito prosaepoesia.net e che ha avuto ottime recensioni: ho dato il tuo nome. Per ultimo, vi invito a leggere una nuova rubrica: la fatica d'essere scrittore #1.
 
 
 
LA FATICA DI NON PENSARE ma anche il mio precedente libro UNA COMPLESSA SEMPLICITA', si possono acquistare anche online, LA FATICA DI NON PENSARE è acquistabile anche in formato e-book, al prezzo di € 3,49.  Alcuni siti dove poterli acquistare: www.ibs.it, www.amazon.it, www.unilibro.it.
LA FATICA DI NON PENSARE  è acquistabile anche nel sito dell'editore, www.edizionidelfaro.it   o nelle librerie, codice isbn 9788865378663.
 
Per me, una persona eccezionale è quella che si interroga sempre, laddove gli altri vanno avanti come pecore.
F. De André