Riporto integralmente un articolo de repubblica.it. Articolo da sottoscrivere in pieno. In particolare vi invito a leggere le parole di un grande del basket giovanile italiano, Giordano Consolini, oltre alle dichiarazioni di Devis Mangia, allenatore di serie A ed ex allenatore delle nazionali giovanili. La mia unica considerazione è che il problema è sempre e comunque culturale.
Buona lettura.
Andate a vedere un torneo under 10 di tennis. Fanno
spavento. Sono alti poco più della rete e tirano certe botte
impressionanti, per potenza e precisione. Se di là ci fosse Peppa Pig la
vorrebbero morta. Sono prodigiosi in modo tenero e sconcertante. Non
sorridono mai. Si allenano fino a sedici ore alla settimana, in quarta o
quinta elementare, per quella partita del weekend. E se sbagliano un
colpo, spesso vedrete questi Federer e Sharapova miniaturizzati guardare
subito papà o mamma. Seduti su quelle tribune dove tanti genitori fanno
molto più spavento di loro. "La mia squadra ideale è una squadra di
orfani" è la vecchia battuta che gira tra allenatori. Un paradosso,
ovviamente, come sono paradossali i casi di genitori aguzzini, disposti a
tutto pur di vedere un figlio campione, che finiscono sui giornali. Ma
la normalità che non fa più notizia è fatta di risse a bordocampo alle
partite dei ragazzini, arbitri insultati e aggrediti, allenatori
contestati. Ogni maledetta domenica, e il sabato pure. Qualsiasi
istruttore giovanile, di qualsiasi sport, sa che una parte importante e
difficile del suo lavoro è "allenare" i genitori. La linea di
campo tra gioco e stress per il bambino è sottile, quanto quella tra il
buon genitore che si limita a far capire l'importanza formativa della
disciplina e dell'impegno e quello che invece invade, soffoca,
s'arrabbia, giustifica, pretende. "L'influenza negativa della famiglia è
il nocciolo del problema" dice il pedagogo Emanuele Isidori, docente
di etica e filosofia dello sport. "Troppi genitori proiettano sui loro
figli le proprie frustrazioni e aspettative, caricandoli di ansie
deleterie. Da una nostra ricerca del 2009 risulta che tra gli 8 e i 12
anni la maggioranza dei bambini pratica sport per vincere, come
principale motivazione: questo è grave". Il caso Agassi ha fatto
letteratura: il suo best seller Open ha alzato un velo sulle torture
psicologiche subite dal padre. Lui però almeno è diventato Agassi. Uno
su quanti? Nel calcio, in serie A arriva uno su cinquemila. "I genitori
più pericolosi e invadenti sono quelli che non si sentono realizzati e
hanno meno cose da fare nella vita" sostiene Isabella Gasperini,
psicoterapeuta dell'età evolutiva che collabora con varie squadre di
calcio. "E in dieci anni la situazione è peggiorata di pari passo con
l'aberrazione del calcio professionistico. Senti questi genitori parlare
delle partite dei figli come se fosse serie A: la tattica, il mister...
Purtroppo avvertire che questi comportamenti fanno solo danni è
inutile: sono meccanismi involontari. Quello che cerco di far capire è
che i bisogni dei bambini sono diversi dai loro. I bambini accettano
l'errore e il fatto che un altro sia più bravo come una cosa naturale, e
invece li vedi costretti a impegnarsi per realizzare i sogni dei
genitori dietro la rete secondo un loro tacito e insano accordo. Vanno
invece lasciati liberi: di sbagliare, di creare, di calciare come gli
viene, di sdraiarsi a guardare il cielo se non hanno voglia di correre,
di seguire l'istinto. Liberi anche di assumere le proprie responsabilità
e di cavarsela da soli, se un compagno gli ha messo le scarpette sotto
la doccia ". Giordano Consolini, responsabile del settore
giovanile della Virtus Bologna, uno dei più titolati vivai del basket
italiano, osserva: "Ci sono famiglie che combinano disastri. Un esempio:
siamo andati a giocare le finali nazionali under 17 con due ragazzi,
amici d'infanzia, che non si parlavano più e non si passavano neanche
più la palla per questioni di invidie tra famiglie. Roba di convocazioni
in Nazionale e premi che uno aveva ricevuto e l'altro no. I due ragazzi
li ho messi in camera assieme, ci ho parlato, ho ottenuto che almeno si
rispettassero in campo e abbiamo vinto quello scudetto. Ma con le
famiglie i risultati sono stati scarsi, non hanno cambiato
atteggiamento. Figurarsi quando subentrano anche i procuratori.
Purtroppo molti genitori provocano la cosiddetta "sindrome da campione":
il ragazzo viene sopravvalutato, si sente già arrivato e si blocca il
processo di crescita. Considera che sia tutto scontato e dovuto, pensa
solo che gli basti far passare il tempo e andrà nella Nba. È come se
entrasse in una realtà virtuale e non considera più l'opzione
dell'insuccesso: se arriva una sconfitta la vive come un fattore
imprevedibile, non trova una via d'uscita, resta disarmato perché è
stato programmato solo per vincere. Ed è difficile a quel punto farsi
ascoltare. Perché è più comodo dar retta a chi ti regala un alibi dando
la colpa a un altro: all'ambiente, al tecnico, ai compagni, agli
arbitri. Il talento non basta per diventare giocatori". La mala
educación tocca l'apoteosi intorno al campo da calcio, dove rispetto ad
altri sport il miraggio di ricchezza è più abbacinante. "Quando i
genitori vedono il bambino solo come una possibile fonte di guadagno, è
finita - dice Devis Mangia, ex ct dell'Under 21 - . Tutti pensano di
avere il campione in casa. Quando un ragazzino si comporta male costa
meno fatica etichettarlo come piantagrane e abbandonarlo al suo destino,
mentre parlandoci si scoprono spesso situazioni famigliari alle spalle
che spiegano gli atteggiamenti deviati. Ma, al contrario di quanto si
possa credere, non è detto che subisca maggiori pressioni chi viene da
contesti culturali e sociali inferiori, dove un contratto da
professionista potrebbe rappresentare una svolta per tutta la famiglia".
Lo conferma anche Roberto Meneschincheri, responsabile dell'attività
agonistica under 16 dello storico Tennis Club Parioli di Roma, il
circolo che ha sfornato Pietrangeli, Panatta e Barazzutti: ultimo titolo
vinto, il campionato italiano under 12 femminile. "È questione di
istinto e carattere, non di denaro o laurea: i genitori troppo pressanti
che chiedono ai figli solo il risultato sono molto diffusi. Col dialogo
di solito si riesce a ottenere collaborazione, a far capire che non va
data troppa importanza alla partita e a evitare così interferenze o
intemperanze durante il gioco". Molte società fissano un decalogo
dell'ovvio. Sdrammatizzate, incoraggiate, esaltate i risultati positivi
e alleggerite le sconfitte, non entrate in campo e negli spogliatoi,
lasciate che la borsa se la portino da soli, non discutete con
l'allenatore di schemi e ruoli, rispettate gli arbitri, non parlate male
al ragazzo del suo allenatore e dei suoi compagni. Eccetera. Ma il
pedagogo Isidori non assolve nemmeno le società: "Dicono pensate a
divertirvi ma il messaggio che di fatto viene trasmesso implicitamente
dal sistema è un altro: conta solo vincere. Accade perché è
completamente sbagliato il modello del Coni: le federazioni per avere
soldi devono portare risultati. In Italia manca educazione sportiva
perché non esiste lo sport per tutti: gratuito". Lo stereotipo di
madre italica che segue con apprensione il bambino sulle macchinine a
gettone dei parchi, va fortemente in crisi davanti alla storia di Mattia
Caminiti, anni otto, che, come altri coetanei, corre a cento all'ora
sui go kart. Figlio di Andrea, ex tennista, e Nicoletta, ex ciclista
professionista: un paio di volte alla settimana lo passa a prendere il
meccanico e lo porta sulla pista di Jesolo. Nei weekend tutta la
famiglia invece parte in camper per seguirlo sui vari circuiti. "Gli
abbiamo fatto provare calcio, basket, nuoto, tennis, ma Mattia vuol fare
quello, non c'è verso, ed è molto bravo - racconta il papà - .
Corre da quando aveva meno di quattro anni. Gli viene naturale, non si
rende neanche conto di come. Nessuno lo obbliga". È uno sport molto
costoso: ogni anno partono dai 15 ai 25mila euro, quindi servono conti
solidi (mamma ha una fabbrica di lampadari) e sponsor. Il papà ha una
web agency e ha creato un blog per MattiRed. "Ci sono altre famiglie che
fanno i debiti per far correre i figli di nove anni, ci investono e
nutrono speranze. Così nove adulti su dieci dell'ambiente si stupiscono
che Mattia si diverta sul serio". Guardate una gara su www. easykart.it
sembra un videogame per topi. Chissà se ridono, dentro quei caschi
enormi.
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