Riporto quasi completamente un articolo apparso ieri su Repubblica, l'articolo completo è questo: repubblica.it/scuolecalcio. Non voglio fare polemiche nei confronti del pianeta calcio, nel basket il fenomeno di cui si parla è più limitato perché ci sono meno soldi e, lo spero tanto, perché c'è un po' più di cultura. Non ho scritto cultura sportiva perché lo sport è cultura, ebbene sì!
La mia riflessione quindi non va fatta nei confronti delle scuole calcio, ma nei confronti dei genitori. E la riflessione vale non solo per il calcio. Siete consapevoli che state vendendo sogni, spesso inutili, ai vostri figli? Perché quando si parla di sport perdete la lucidità mentale e pretendete che vostro figlio sia un campione? La sport ha soprattutto altri significati. Nell'articolo si parla di successo facile, forse è questa la risposta...
Buona lettura.
I bambini fanno sogni di cuoio. Guardano il pallone
come una sfera di cristallo, ci leggono un futuro da star: una maglia
importante, una fascia sul braccio, uno stadio in adorazione. Ma la
realtà è spietata come un numero. C'è un esercito di minicalciatori con
aspirazioni da grandi, 300mila soldatini nelle categorie più piccole del
pallone, quelle che hanno nomi da peluche, piccoli amici e pulcini.
Solo uno su 4-5mila arriverà a esordire in A, dove negli ultimi dieci
anni hanno messo piede per la prima volta appena 622 ragazzi cresciuti
nel vivaio e il trend è in calo (solo 36 l'anno scorso). La regola è che
quel manipolo di aspiranti eroi, con la maglia sempre un po' troppo
larga, finirà a fare altro: meccanico, panettiere, impiegato,
ragioniere. Sognando Beckham, ti ritrovi a lavorare al catasto. Alla
partenza, l'ambizione di tutti è l'azzurro e alimenta il business delle
scuole calcio: 7.189 in Italia, numero impressionante se paragonato
alle scuole medie (8mila) o elementari (16mila). Le rette annuali
variano da 300 a 900 euro e garantiscono ai gestori ricavi a molti zeri.
Realtà spesso piccole, che contribuiscono alla formazione e alla
crescita dei bimbi. Antonio Piccolo, istruttore della scuola calcio Arci
Scampia (tre campi in erba sintetica, 500 iscritti), spiega: "Ai
ragazzi meno bravi non bisogna bruciare i sogni, ma neppure alimentare false illusioni. Bisogna
insegnare loro che nella vita c'è altro: lo studio, il lavoro, essere
cittadini migliori. Hanno come riferimento la tv, i milioni di
Balotelli. Giocano perché vogliono arrivare, sono sempre meno quelli che
lo fanno per divertirsi. Invece il calcio è bello perché hai degli
obiettivi condivisi con un gruppo di compagni, perché dà emozioni anche
in Eccellenza, in Promozione, la domenica con gli amici. È legittimo
sognare, ma i ragazzi vanno protetti. Prima di tutto da madri e padri,
che spesso invece cercano il riscatto della loro vita attraverso i
bambini. Poi dai personaggi che s'aggirano per i campi: qui tutti sono
agenti Fifa, tutti avvicinano i genitori, tutti fanno i talent scout. In
un quartiere come il nostro, abbiamo un dovere in più". Le
accademie si dividono su tre livelli qualitativi. Il 73% sono centri di
base. Per avere lo status di scuola calcio "riconosciuta" servono
tecnici qualificati, un medico, strutture adeguate (24% del totale). Più
in alto ancora ci sono le scuole calcio "specializzate" (232, il 3%):
hanno convenzioni con istituti scolastici e uno psicologo che incontra
genitori, istruttori, dirigenti. Spiega il professor Alberto Cei,
psicologo dello sport: "La difficoltà maggiore per le società è gestire i
genitori. Finché i bambini hanno 8-9 anni, tutto tranquillo. Poi,
cresce l'ansia di avere in casa il nuovo Totti e persino i nonni
cominciano a lamentarsi. Protestano se il bimbo gioca in una squadra
mista, con le bambine, pensano "proprio a me?". Gli incontri con lo
psicologo servono a creare un clima positivo, a elevare la qualità
dell'insegnamento". Per diventare istruttori, bastano la terza
media, un corso di 80 ore, una tesina e un test finale, ma la
maggioranza dei tecnici in Italia (14mila su 20mila) ha un patentino
Uefa B, utile anche per allenare in serie D. L'Assoallenatori ha
istituito corsi sperimentali specifici per i vivai e propone di renderli
obbligatori: i grandi tecnici, insomma, dovrebbero prima imparare a
lavorare con i ragazzi. "Gli psicologi - prosegue Cei - osservano in
partita il comportamento degli istruttori e ne compilano un'analisi, ad
esempio valutano se dopo l'errore di un bambino il tecnico dà
istruzioni, rimprovera, incoraggia, ignora, oppure con quanti ragazzi si
ferma a dare spiegazioni". Dai primi calci alla squadra vera la
strada è un imbuto. Nella fascia 11-12 anni, categoria Esordienti,
giocano 150mila tesserati, il 26% della popolazione maschile in questa
fascia d'età. Nel campionato Allievi, 16 anni, ne restano 70mila, meno
della metà. Scrematura lenta e inesorabile. Del gruppone partito con
l'iscrizione a una scuola calcio e tante speranze, tre su quattro si
arrendono molto prima dell'adolescenza. Da bambini è facile trovare una
maglia e un po' di spazio: basta pagare. Quando il gioco si fa serio,
restano i più bravi. Mino Favini, responsabile del settore
giovanile dell'Atalanta, lavora sui ragazzi da quasi 40 anni: "Il nostro
è un caso particolare, ne abbiamo in prima squadra sette che qui sono
arrivati bimbi. Ma nel complesso la selezione è durissima. Prima di
tutto ci vuole un po' di talento, e quello non si insegna. Poi, c'è un
percorso di formazione complesso: la crescita fisica la decide il
Padreterno, quella atletica, tecnica e tattica, cioè la definizione del
ruolo, dipende dal lavoro negli anni. Infine c'è il carattere: bisogna
dimostrare di avere intensità agonistica, spirito di sacrificio,
capacità di stare nel gruppo. Solo chi soddisfa tutti i requisiti ce la
fa. Rispetto a dieci o vent'anni fa, i ragazzi hanno più distrazioni,
faticano a concentrarsi sull'obiettivo, vogliono il successo facile. E
poi ci sono elementi di disturbo, dai sedicenti procuratori alle
famiglie: sapeste come sono terribili le mamme". Nel calcio del
Duemila, muscoli e centimetri vengono preferiti alla qualità. Il
presidente del settore tecnico, Gianni Rivera, ricorda che "l'errore dei
vivai è selezionare i giocatori solo sul fisico, bisogna riscoprire la
tecnica". Curiosamente, la stragrande maggioranza dei giocatori italiani
è nata nel primo semestre dell'anno, dato evocativo di pericolosi
criteri di selezione, all'interno di una classe, basata sulla
maturazione fisica. "Ha ragione Rivera - annuisce Favini - ormai in
Italia la scelta dei ragazzi si fa solo sull'altezza e la corporatura,
io penso che bisogna riportare l'attenzione sul talento, sulla capacità
naturale di toccare la palla, che si scopre da bambino". C'è
infine il limbo di quelli che ottengono un contratto da professionista,
ma non girano in Ferrari. Su 13mila calciatori, nove su dieci non
dichiarano più di 35mila euro lordi all'anno e 2.547 sono sotto i 5mila.
Ci sono mestieri e paghe peggiori, per carità. Ma quelli almeno durano
una vita.
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