giovedì 31 ottobre 2013

Colpa dell'altro

Visto che oggi è Halloween, pubblico un racconto (inedito) con un po' di sangue. Anche questo da ristemare e, forse, presente nel prossimo libro.


Avevo capito che con il mio fratellino i rapporti non sarebbero mai stati buoni ma speravo di non arrivare a tanto. Lui, il più giovane di noi tre fratelli, era il figlio ideale se un genitore voleva vergognarsi di una sua creatura. Io, avevo 26 anni e quindi nove più di lui. In mezzo c’era una sorella, Agata, di 21 anni. Una persona tanto inutile quanto noiosa. Da tre anni faceva l’impiegata e tra venti avrebbe fatto ancora quel lavoro. Ma torniamo agli unici due figli per cui valga la pena spendere un po’ di parole. Non c’eravamo mai piaciuti, già a partire dalla sua nascita, un freddo mercoledì di dicembre. Quel pomeriggio dovetti rinunciare alla mia lezione di tennis perché nostro papà portò la mamma in ospedale ed io rimasi a casa con mia sorella, che allora ne aveva 4 anni, a fare da baby-sitter. Ne approfittai per iniziarmi ad un passatempo che negli anni successivi mi avrebbe dato parecchie soddisfazioni, fare il violento nei confronti dei miei fratelli più piccoli. In realtà, a parte quel pomeriggio in cui mi esercitai su mia sorella, il resto della mia carriera si sviluppò ed ebbe la maturità sulla pelle di mio fratello. Ma ritorniamo a quel giorno, mia sorella passò tutto il pomeriggio a lamentarsi del perché la mamma non c’era e del perché forse il nuovo fratellino avrebbe dormito in camera con lei e non con me. Per non sbagliare, mi sfogai su di lei per le sue urla e i suoi pianti, e poi per l’altro in arrivo che non mi aveva permesso di andare a tennis. La misi dentro a una bacinella, la più grande che avevamo, lei ci stava comodamente seduta, e con la scusa di lavarla, la bagnai a intermittenza con getti di acqua calda e fredda. Che ridere! Era tutto un urlo quella stronzetta, fui talmente bravo a escogitare quel piano e a metterlo in pratica che nei giorni seguenti nessuno si accorse delle mie malefatte. Né un segno, né un livido, nonostante i venti minuti buoni a far finta di farle la doccia e a tirarle i capelli con la scusa di lavarglieli. Ammetto che ad un certo punto mi venne la voglia di afferrarle la testa e mettergliela sott’acqua ma decisi, evidentemente inconsciamente, viste le mie future performance, che non era ancora arrivato il momento di essere un vero criminale.
Gli anni trascorsero nervosamente passati a fare la guerra a mio fratello. Lui era il fannullone. Io, invece, quello bravo e diligente a scuola. Lui era quello che andava allo stadio e fare bagarre e tafferugli, un vero hooligan, io quello che studiava pianoforte, in realtà per solo otto mesi, e che aveva giocato a tennis, lo sport dell’upper class inglese. Nonostante queste premesso, il nostro rapporto si era basato fin dall’inizio sulla violenza e all’interno delle mura domestiche, il piccolo pivello doveva sottomettersi alla violenza del diligente fratello maggiore. Non mancavo occasione per fargliela pagare di essere venuto al mondo e di aver rotto gli splendidi equilibri famigliari che fino ad allora avevano caratterizzato l’ambiente domestico. Iniziai abbastanza presto col fargliela pagare. Appena Luca, così si chiama mio fratello, fu svezzato e iniziò a mangiare come noi esseri umani. Mi offrivo spesso di imboccarlo, soprattutto quando mamma preparava minestre e cose calde. Nonostante lei si raccomandasse di soffiare e andare cauto su ogni cucchiaiata, io non rispettavo mai questa regola. La controllavo con gli occhi e appena si girava, imboccavo il neonato velocemente e, devo dire la verità, con una certa cattiveria. Una volta papà e mamma furono costretti d’andare all’ospedale perché il moccioso non la smetteva di piangere. Tornarono a casa con la coda tra le gambe perché i dottori li rimproverarono che dovevano stare più attenti. Mio fratello aveva una brutta bruciatura al palato, dovuta sicuramente al cibo. Ricordo che mamma pianse tutta la notte per quel brutto episodio, mentre papà bestemmiava perché al terzo figlio sua moglie non aveva ancora imparato a dar da mangiare senza rischiare di ucciderlo. E con loro, urlavano anche gli altri due, mio fratello per il dolore che evidentemente aveva al palato, mia sorella perché aveva neanche cinque anni ed era impressionata dalla situazione. Io, me la ridevo. Per due motivi, nessuno si era accorto che ero stato io a imboccare mio fratello, il mio piano era andato a buon fine. Quando Luca aveva due anni e mezzo, ne combinai una di bellissima, lo feci cadere dalla finestra della nostra cucina, un piano rialzato, in piscina. L’altezza non era tale da metterlo in pericolo di vita ma il piccolo si impressionò molto, anche perché tempo che uscii di casa per andare a recuperarlo passarono un venti secondi buoni e il pargolo bevve molta acqua. Fatto sta che non imparò mai a nuotare, mentre io iniziai anche un corso di nuoto giusto per far vedere ai miei genitori che figlio perfetto fossi. Ma fuori di casa, come ho già detto, il teppista era lui. Il giovinastro ne combinò già all’asilo, alle elementari era ormai il bullo della classe, riconosciuto unanimemente da tutto il corpo insegnante, ma puntualmente quando tornava a casa se le beccava da me o per colpa mia. Un giorno, dopo essermi esercitato non poco, scrissi sui miei libri delle bestemmie. Ovviamente non con la mia grafia ma con la sua, o almeno provai ad imitarla. Feci presente ai miei che il settenne mi aveva scritto delle bestemmie sui libri e come risultato vidi mio fratello massacrato di botte da mio padre, il quale non era certo il credente praticante perfetto, però da buon uomo pratico, considerava le bestemmie tanto utili nella vita di tutti i giorni da non poter essere sprecate su di un libro. E in ogni caso, mio fratello aveva 7 anni e mio papà continuava a ripetergli che un bambino così piccolo non poteva bestemmiare. Provò a dirmi che nei giorni seguenti avrebbe parlato e convinto la mamma che ero stato io a scrivermi quelle schifezze ma gli giurai che lo avrei portato in piscina con me e questo lo convinse a stare in silenzio. Devo dire che la trovata del volo in piscina e la sua conseguente fobia per l’acqua fu un asso nella manica che usai più volte negli anni. Gli anni trascorsero così, almeno una violenza la settimana, piccola o grande che fosse. La feci franca sempre, anche quella volta che mentre dormiva gli strappai i peli delle gambe con la ceretta. Si svegliò di soprassalto proprio mentre strappavo la fascetta che gli avevo applicato alla gamba. Aveva 13 anni ed era ben messo con i peli delle gambe. Il giorno dopo andò al mare con i suoi amici e la sua ragazza, con la gamba destra completamente segnata e rossa. Non so quale scusa trovò con gli amici, ai genitori raccontò che andò a sbattere contro uno scoglio. Di sicuro per un po’ di tempo girò la voce che fosse una mezza checca per via del fatto che aveva provato a depilarsi le gambe. So per certo che picchiò un paio di suoi amici per aver messo in giro quella voce, a me neanche disse nulla. Soffriva in silenzio. Il giorno del suo quindicesimo compleanno gli ruppi il setto nasale spingendoli la testa addosso all’albero di natale. Devo dire che in quell’occasione fu molto sfortunato perché l’albero di per sé non era così pericoloso da fargli così tanto male, ma lo sventurato per evitare di andare addosso all’albero, finì proprio sulla base metallica del nostro bell’abete di plastica comprato al supermercato. Cadde così violentemente che la botta gli procurò la frattura del setto nasale e due giorni di ricovero. Non fu però la prima frattura che gli provocai, perché già un’altra volta lo mandai all’ospedale con un risultato simile. Eravamo in montagna, lui avrà avuto un otto o nove anni ed io quindi il doppio, eravamo andati un week end tutti e cinque a sciare. Non persi la mia grande opportunità, alla prima occasione buona, dopo che mio fratello aveva fatto la sua prima discesa tutta da solo, lo spinsi a tradimento giù per un fuori pista. Mentre si girava a guardarmi terrorizzato i suoi occhi erano pieni di panico e impotenti per quello che gli sarebbe potuto succedere. Ritengo che lui pensasse di morire e forse anche mi implorò di aiutarlo, ben sapendo che lo avevo spinto apposta e che il mio aiuto non lo avrebbe mai avuto. La sua corsa finì nei pressi di un grande abete, la cui consistenza fu provata dal ginocchio della gamba sinistra, ma tutto sommato con poche conseguenze, contusione con relativo ematoma, il tutto guaribile in dieci giorni. Il vero problema lo ebbe con la frattura di due dita della mano destra, all’anulare e al mignolo con necessaria una capatina in sala operatoria per risistemare le articolazioni. Risultato, week end finito e altri due mesi a ospedali. Quella fu l’unica volta in cui mi sentii cattivo con mio fratello ma fu anche l’unica volta in cui capii come dovevano sentirsi i bimbetti più piccoli che mio fratello metteva sotto a scuola. Probabilmente, dentro di sé, li chiamava tutti con il mio nome.   
Così, tra mille cattiverie mie nei suoi confronti, ma anche un ottimo diploma al liceo e la conseguente laurea, per non parlare dei buoni risultati sportivi, e le sue performance da stupido adolescente in giro per il mondo, arriviamo a tre settimane fa. L’antefatto è la visita dei miei ai futuri suoceri, genitori del futuro marito di mia sorella. Abitando a cinquanta chilometri da casa nostra ed essendo i miei stati invitati per cena, partirono più o meno al tramonto, verso le sei e mezza. Restammo a casa solo io e lui. Avevo in programma d’uscire ma solo dopo cena. Lui sarebbe probabilmente rimasto a casa a vedere qualche porno al pc. Mi ritrovai improvvisamente vicino a lui, eravamo in cucina, non so perché andai dalla camera alla cucina così repentinamente, forse il mio istinto mi aveva guidato. Fatto sta che appena lo vidi capii subito cosa avrei dovuto fare e lo feci. Presi in mano la grattugia che stava sullo scola piatti e mi avvicinai a lui che girato di spalle, evidentemente stava cercando qualcosa in dispensa. Mi mossi con uno scatto felino e mentre lui si girava verso di me, partii con la grattugia verso il suo viso. I due colpi furono eseguiti ad opera d’arte. In ginocchio, madido di sudore e piagnucolante, non potevo credere a quanto successo. Il pivello mi anticipò, teneva in mano un lungo coltello da cucina, con il quale mi ferì molto profondamente entrambi i polsi. Ero disteso in un bagno di sangue, non riuscivo a muovere le mano per via dei tendini lacerati. Penso sia stato lui a chiamare l’ambulanza e poi successivamente ad aprire la porta. Mi trovarono piagnucolante e con le mani completamente immobili. Probabilmente mi era anche salita la febbre e vomitai. Non ricordo altro.
Passai dieci giorni all’ospedale, i medici fecero un gran lavoro e nel giro di qualche mese dissero che avrei riacquistato quasi completamente l’uso completo delle mani. I tendini ebbero delle lacerazioni importanti ma, un po’ la bravura dei dottori e un po’ la rapidità dei soccorsi, salvarono quasi totalmente le mia mani. In un certo senso dovetti essere grato a mio fratello per aver chiamato subito i soccorsi. Ripeto, penso sia stato lui. La sorpresa più grande fu scoprire che mio fratello spiegò per filo e per segno, prima ai medici e poi ai miei genitori, come avevo cercato di suicidarmi. Esattamente da ventuno giorni sono così sotto sedativi e in cura da un paio di strizzacervelli. Il pivello mi aveva fregato, aveva convinto tutti che fossi malato e che avessi cercato la morte, per disperazione. Sentivo i miei chiacchierare in corridoio, mio padre diceva che era normale avessi fatto una cosa così con quel fratello screanzato e delinquente che mi trovavo, mia madre lo sostenne dicendo che sì, era colpa dell’ altro.

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