Oggi vi propongo questo articolo che ho trovato su www.mentecritica.net e che trovate con questo titolo: te la do io l'america. Lo trovo interessante e fuori dal solito coro.
Buona lettura!
Io me lo ricordo Silvio Berlusconi, da Vespa, mentre disegna col
pennarello strade e ponti per rendere più comoda e più facile la vita
degli italiani. E risento con raccapriccio il controcanto delle vestali:
meno male che Silvio c’è!
Me lo ricordo Beppe Grillo mentre emerge dalle acque dello Stretto e
grida: mandiamoli a casa tutti! Te la do io l’Europa! E i coreuti che
riprendono il concetto e anticipano l’evento: li stiamo mandando tutti a casa!
Sono di ieri le promesse di Pirgopolinice-Renzi: ve la do io la legge
elettorale!, che già oggi hanno quell’aria un po’ moscia delle lattughe
sui banchi del mercato, a mezzogiorno. Mentre il Popolo delle Primarie,
in attesa di vedergli cavare il coniglio dal cilindro, impaziente
freme: altrimenti cosa l’abbiamo messo lì a fare?
Troppi pensano che si debba ricominciare da zero, che non valga la
pena di manutentare questo paese partendo da quello che c’è; pensando di
poterlo rivoltare, senza spettinarlo troppo, nel giro di qualche
settimana. Troppi pensano che il problema sia etico, una semplice
conseguenza del malaffare che impregna le classi dominanti, della
combutta che unisce la classe politica ai poteri forti; il risultato
della troppa CO2 che abbiamo messo in circolo, la poca attenzione per il prossimo, il risultato di un modello di sviluppo insostenibile
Non dico di no. Né intendo difendere la classe politica, oppure i
poteri forti, che si difendono benissimo da sé, né oppormi in nessun
modo alla decrescita felice. Quel che mi preme è il sospetto che alla
base del nostro declino ci siano altre questioni, che poco hanno a che
fare con l’etica, con la classe politica corrotta, con i poteri forti e
con le emissioni di CO2.
Faccio un salto indietro, per spiegarmi meglio.
Quando andavo a scuola, molti anni fa, e avevo quell’età in cui ci si
pongono tutte quelle domande che sappiamo, che poi ci trascineremo
irrisolte per tutta la vita, una delle minori, alla quale tuttavia non
sapevo rispondere, era: ma com’è che in un certo periodo della nostra
storia, non prima, non dopo, ci piovve addosso quell’incredibile
quantità di pittori, scultori, architetti, letterati, scienziati, poeti e
poetesse e via discorrendo, di cui danno conto i libri di storia? Senza
apparente motivo, quasi che il nostro paese, tra la fine del trecento e
gli inizi del seicento si fosse trovato per puro caso in una
felicissima congiunzione astrale e baciato in fronte dalla fortuna.
Quando ponevo la domanda mi sentivo rispondere che le cose della
cultura sono così, oggi a me, domani a te. Vai a sapere. Solo in seguito
mi nacque il sospetto, leggiucchiando qua e là, che non si trattasse di
un regalo e neppure di un caso. Una deliberazione del senato veneziano
del 1454 informa, per esempio, che, all’epoca, il “ducatus per totum orbem erat in maximo culmine et fama”.
E se il ducato spadroneggiava nel mediterraneo orientale, dall’altra
parte la faceva da padrone il fiorino. Due monete che, allora, in
Europa, nel parlare comune, erano sinonimo di moneta d’oro. Firenze era il cuore pulsante dell’economia europea, uno dei principali centri della prima accumulazione capitalistica.
Qualcuno potrebbe ribattere che erano le scienze, le lettere e le
arti, ovverosia la cultura, a gonfiare le vele dell’economia; e però una
simile convinzione parrebbe essere smentita dal fatto che, quando, in
seguito, l’asse economico del mondo si spostò, per ragioni non culturali
ma logistico-commerciali, e in seguito e di conseguenza manifatturiere,
la cultura rapidamente lo seguì. Lo spostamento cominciò a partire dal
sedicesimo secolo e si completò nella prima metà diciassettesimo.
Perché anche la storia ha la sua isteresi. I risultati non si vedono subito. Anzi, sovente si vedono quando è tardi.
Dice Machiavelli, che di tutto può essere accusato tranne che di non saper leggere le cose della storia: “E
di questo avviene quel che dicono i medici del tisico, che all’inizio
la sua malattia è facile da curare e difficile da diagnosticare, ma, col
passare del tempo, non avendola diagnosticata fin dall’inizio né
curata, diventa facile da diagnosticare e difficile da curare”
È da un pezzo che ho l’impressione che stiamo vivendo qualcosa di
simile. Qualcuno dice: vabbè, ma non è il motivo principale. Pochi sono
disposti a trarne le conseguenze. Perché, forse, se si traessero, si
dovrebbe ammettere che quel che ci aspetta è una lunga traversata del
deserto. Quelli che si dicono impegnati contro l’andazzo delle cose
contrattaccano con aria bellicosa: e allora? cosa dovremmo fare? stare a
guardare?
No, naturalmente. Potendolo bisognerebbe provare a fermare la deriva
dell’asse economico, prima, poi a invertirne il moto e per finire
rimetterlo al suo posto, dove si trovava. Se una simile operazione, per
esempio, l’avessero fatta nei primi del cinquecento, hai voglia quanti
Michelangelo e Raffaello in più avremmo avuto.
Ma ci sono delle cose che non basta volerle, per poterle fare.
Ci sono delle malattie che non si possono curare con i pannicelli
caldi. Non basta dire: camminiamo col gilet in spalla a fianco del
quarto stato, la nostra decadenza è figlia dell’egoismo, dell’ambizione,
della mancanza di solidarietà, di quei vecchi rincoglioniti che si
perdono via davanti alla televisione. La televisione c’è anche là dove
non hanno i nostri problemi.
Non risulta che nella Firenze dei Medici, quel che c’era di meglio
nel XIV-XV secolo, si volessero particolarmente bene, o fossero
particolarmente onesti. Anzi, viene proprio da lì l’esprit florentin, cinica propensione al tradimento e al trasformismo, che diventerà l’etichetta che ancora ci portiamo addosso.
Succede semplicemente che nel XVI secolo alle stoffe pratesi e
fiamminghe si affianchino quelle inglesi e olandesi; alla seta lucchese,
la seta spagnola e francese.
Capita che all’inizio del XVII secolo la borsa di Amsterdam divenga
il maggiore centro di raccolta e di mobilitazione dei capitali necessari
a finanziare le attività legate alla produzione manifatturiera e ai
servizi. L’asse economico s’è spostato. Ciao Venezia. Ciao Firenze.
Leonardo e Michelangelo non nascono più qui.
Per caso? Oppure aveva ragione Marx quando sosteneva che non sono le
idee ma è l’economia il motore del mondo? Che quelle vengono da questa,
non viceversa. Che non vuol dire che si considera l’Economia come la
cosa più importante, bensì il concime senza del quale i fiori crescono
stenti, o non nascono affatto.
Poi dipende sempre da quello che si vuole. Se si vogliono auto,
riscaldamento centralizzato, cure mediche, abiti, scarpe, buone scuole,
soldi per la ricerca e una vacanza all’anno in un bel posto, in questo
caso non servono i profeti, gli asceti, i poeti, gli affabulatori, i
prestigiatori, i guitti, e neppure i puri di spirito. Serve un’economia
solida, che si costruisce partendo da quello che si ha, non da quello
che si dovrebbe avere. Anche quando possa sembrare del tutto inadeguato
alle proprie aspirazioni.
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