giovedì 17 agosto 2017

Sul perché scrivere racconti

Premetto che non sono io a spiegarvi il perché ma Carver. Quindi se lo dice lui...
L'articolo che riporto è completo, troppo interessante per fare dei tagli, e l'ho trovato qui: www.ilcartello.eu/iraccontidicarver. Buona lettura!

I racconti di Raymond Carver lo caratterizzano come grande narratore della provincia americana.
Nei suoi Memoirs, pubblicati nel 1942, Sherwood Anderson scrive:
«A volte ho perfino pensato che la forma del romanzo non si addica allo scrittore americano, che è una forma importata. Quel che ci vuole è una nuova elasticità; e in Winesburg ne ho fatto la forma mia propria. Erano storie indipendenti ma tutte di vite in qualche modo collegate».
Lo scrittore, nella sua raccolta di racconti Winesburg, Ohio (1919), racconta i fallimenti e le aspirazioni dei pochi abitanti di una città di provincia americana; il racconto breve è per lui lo strumento con cui costruire una narrazione concentrata, carica di tensione e priva di retorica o moralismi. I personaggi sono caratterizzati dalle loro azioni, non dalle descrizioni dell’autore, e i silenzi sono importanti tanto quanto i dialoghi.
Per Sherwood Anderson, come per Raymond Carver, il racconto breve è lo strumento con cui costruire una narrazione concentrata
Le parole di Anderson mi hanno rimandato subito a Raymond Carver, uno dei maestri contemporanei del racconto breve (che conosciamo bene vista la nostra raccolta Trenta racconti italiani), che più di mezzo secolo dopo dichiara:
“Durante questi feroci anni di paternità, di solito non avevo il tempo, o l’animo, di pensare di lavorare a qualcosa di molto lungo. Le circostanze della mia vita […] non me lo permettevano. Le circostanze della mia vita con questi bambini imponevano qualcos’altro. Dicevano che se volevo scrivere qualcosa, e portarla a termine, e se volevo essere soddisfatto per un lavoro ultimato, dovevo dedicarmi ai racconti o alle poesie. Cose brevi: avrei potuto sedermi e, con un po’ di fortuna, scrivere rapidamente e farcela.”
(R. Carver, Voi non sapete che cos’è l’ amore, p. 52)
Al contrario di Anderson, non fa dichiarazioni di poetica: per lui il racconto breve è l’unico modo possibile per portare a termine una narrazione. Eppure, mi sembra che Carver sia l’autore a cui meglio si addice l’idea che il racconto breve sia una forma narrativa costitutivamente americana. O, sarebbe meglio dire, della provincia americana, quei vasti territori interrotti solo da piccoli abitati su cui autori come Anderson ed Hemingway hanno rivolto lo sguardo. Infatti, se è vero che la scelta della narrativa breve è stata imposta a Raymond Carver dalla vita instabile che conduceva, c’è anche un motivo più profondo per cui l’autore la privilegia:
“Per scrivere un romanzo, mi sembrava,  uno scrittore dovrebbe vivere in un mondo dotato di senso, un mondo in cui poter credere, da poter mettere a fuoco per bene e su cui poi scrivere accuratamente. Un mondo che, almeno per un certo tempo, rimanga fisso in un posto. Inoltre, dovrebbe esserci una specie di fiducia nella correttezza di quel mondo. Fiducia nel fatto che il mondo conosciuto abbia una ragion d’essere, e che valga la pena di scriverne, che non vada tutto in fumo mentre lo fai. Non era questo il tipo di mondo che conoscevo io e nel quale vivevo.”
 (R. Carver, Voi non sapete che cos’è l’ amore, p. 54)
Il mondo che Carver conosce meglio, quello di cui scrive, è la vasta e umida provincia del Pacific Northwest americano. Qui, i suoi personaggi vivono quasi sempre in un dopo: si sono già lasciati alle spalle la fiducia nel mondo, i sogni di successo, l’idea che la tenacia e il lavoro avrebbero permesso loro di realizzare qualcosa di buono. La felicità esiste solo come ricordo, o come breve rivelazione, incapace di durare più di pochi attimi. Non ci vengono mai raccontate le avventure dei protagonisti, ma il momento in cui, dopo aver raggiunto la consapevolezza del fallimento, ci si chiede come continuare a vivere.
Il mondo che Carver conosce meglio è la vasta e umida provincia del Pacific Northwest americano
Nel racconto Dì alle donne che usciamo (Di cosa parliamo quando parliamo d’amore), uno dei protagonisti arriva addirittura a compiere un gesto di violenza estrema, uccidendo due ragazze. L’omicidio, lo scoppio di un istinto di aggressività irrefrenabile, è la reazione estrema a un mondo che, carico di promesse, ha poi tradito il giovane Jerry:
“Quando Bill e Linda si sposarono, Jerry gli fece da testimone. Naturalmente il pranzo di nozze lo fecero al Donnelly Hotel, con Jerry e Bill che facevano gli spiritosi insieme, si mettevano a braccetto e buttavano giù un bicchiere dopo l’altro di punch corretto. Ma in mezzo a tanta baldoria, a un certo punto Bill guardò Jerry e pensò che sembrava più vecchio, molto più vecchio dei suoi ventidue anni. A quel punto Jerry era padre felice di due bambine, era stato promosso a vicedirettore dei grandi magazzini Robby’s e Carol ne aveva già un altro in arrivo.”
(Dì alle donne che usciamo, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, p. 48)
Eppure, quella di Jerry è una delle poche azioni estreme che si trovano nei racconti di Raymond Carver.
Perlopiù i suoi personaggi si tormentano chiedendosi che fine abbia fatto la felicità conosciuta in passato, anche se per breve tempo:
“– E quando eravamo solo dei ragazzi, prima di sposarci? – fa Holly. – Quando avevamo grandi progetti e grandi speranze? Te lo ricordi? – Era seduta sul letto, stringendosi le ginocchia e il bicchiere.
– Sì che me lo ricordo, Holly.
– Non sei stato il mio primo ragazzo, sai, il mio primo ragazzo si chiamava Wyatt. Immagina un po’, Wyatt. E tu ti chiami Duane. Wyatt e Duane. Chi lo sa che mi sono persa in tutti quegli anni. Però ero felice. Sì, sul serio. Tu eri tutto per me, come nella canzone.”
 (Gazebo, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, p. 22)
Non a caso, la fine dell’amore è un tema su cui l’autore torna continuamente: come ci si può ritrovare infelici, dopo aver sposato la persona che si ama? Eppure, la durata limitata della felicità sembra una condanna a cui non si può sfuggire, quasi una legge di natura inspiegabile. Eccoci proiettati in pieno nel mondo di Carver: non è  un «mondo dotato di senso, un mondo in cui poter credere, da poter mettere a fuoco per bene». Non è un mondo su cui poter scrivere un romanzo.
La fine dell’amore è un tema su cui Raymond Carver torna continuamente
Molti dei suoi personaggi, soli e disorientati, trascorrono le giornate in uno stato di intorpidimento generato dall’alcol, che si trova al centro di diversi racconti; ne è un esempio Da dove sto chiamando (Cattedrale), ambientato in un centro di recupero per alcolisti. Il protagonista ha alle spalle un matrimonio fallito e sta cercando di portare avanti una nuova, complicata relazione. Il primo giorno dell’anno, decide di fare una telefonata:
“Tiro fuori delle monete dalla tasca. Proverò prima con mia moglie. Se risponde, le farò gli auguri per l’anno nuovo. Ma tutto lì. Non solleverò discussioni sui nostri affari. Non alzerò la voce. Neanche se cerca di provocarmi. Mi chiederà da dove sto chiamando e dovrò dirglielo. […] Dopo che avrò parlato con lei, chiamerò la mia ragazza. O magari chiamo prima lei. Dovrò solo sperare che non prenda la linea suo figlio. – Ciao, tesoro, – le dirò appena risponde. – Sono io.”
(Da dove sto chiamando, Cattedrale, p. 144)
Quel «sono io» è una risposta, seppur fragile, a una domanda a cui non ci può sottrarre: dopo aver visto infrangersi i propri sogni giovanili, che cosa resta da fare? È in questo spazio, seppur stretto, che si gioca la nostra possibilità di scelta. Ed è qui che il mondo di Carver, la provincia del nordovest americano, pur continuando ad essere una realtà ben definita, assume anche un valore archetipico: la domanda che si pongono i suoi personaggi non ha confini geografici.
E’ nella provincia del nordovest americano che il mondo di Raymond Carver assume anche un valore archetipico
Il protagonista di Da dove sto chiamando decide di lasciar andare il passato, di aggrapparsi a una relazione fragile e difettosa, ma pur sempre reale. L’unico modo per farlo è tentare una telefonata, cioè avere fiducia nella comunicazione. La stessa fiducia che Carver ripone nella parola letteraria, a cui dà forma con uno stile asciutto ed essenziale, basato su una convinzione più etica che estetica:
“In definitiva, le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, con la punteggiatura nei posti giusti in modo che possano dire nel modo migliore quel che devono dire.”
 (R. Carver, Voi non sapete che cos’è l’ amore, p. 38)
Le parole devono dire «quel che devono dire»: una tautologia che esprime fino in fondo l’urgenza della ricerca di Carver, la sua necessità di andare al cuore della realtà in cui si trova immerso. Una volta che sogni e aspettative sono andate in pezzi – sembra dirci l’autore – credere nelle possibilità della parola è quanto di più umano si possa fare :
“– Continui pure, – disse la signora Webster. – Capisco quello che vuole dire. Continui pure a parlare, signor Carlyle. A volte fa bene parlarne. A volte bisogna proprio tirare fuori tutto. E poi, ho voglia di starla a sentire. Vedrà che dopo si sentirà meglio. Una volta anche a me è capitata una cosa del genere, una cosa come quella che sta descrivendo lei. L’amore. Ecco di cosa si tratta.”
 (Febbre, Cattedrale, p. 183)
Avere fiducia nella comunicazione, la stessa fiducia che Raymond Carver ripone nella parola letteraria
Nel soggiorno di una casa di provincia, un uomo racconta alla governante che sua moglie ha abbandonato lui e i figli, distruggendo la famiglia e il loro matrimonio. Nessun gesto grandioso, nessuna avventura: solo la consapevolezza che, quando ci si rende conto di aver fallito, l’unico modo per salvarsi è stabilire un legame sincero con qualcuno. Ecco a cosa servono le parole: non vaghe e astratte, ma quotidiane e precise, che aderiscano il più possibile alla realtà. Proprio come le parole dei racconti di Raymond Carver.

Nessun commento:

Posta un commento