Premetto che non sono io a spiegarvi il perché ma Carver. Quindi se lo dice lui...
L'articolo che riporto è completo, troppo interessante per fare dei tagli, e l'ho trovato qui: www.ilcartello.eu/iraccontidicarver. Buona lettura!
I racconti di Raymond Carver lo caratterizzano come grande
narratore della provincia americana.
Nei suoi Memoirs, pubblicati nel 1942, Sherwood
Anderson scrive:
«A volte ho perfino pensato che la forma del romanzo non si
addica allo scrittore americano, che è una forma importata. Quel che ci vuole è
una nuova elasticità; e in Winesburg ne ho fatto la forma mia propria. Erano
storie indipendenti ma tutte di vite in qualche modo collegate».
Lo scrittore, nella sua raccolta di racconti Winesburg,
Ohio (1919), racconta i fallimenti e le aspirazioni dei pochi abitanti di
una città di provincia americana; il racconto breve è per lui lo strumento con
cui costruire una narrazione concentrata, carica di tensione e priva di
retorica o moralismi. I personaggi sono caratterizzati dalle loro azioni, non
dalle descrizioni dell’autore, e i silenzi sono importanti tanto
quanto i dialoghi.
Per Sherwood Anderson, come per Raymond Carver, il racconto
breve è lo strumento con cui costruire una narrazione concentrata
Le parole di Anderson mi hanno rimandato subito a Raymond
Carver, uno dei maestri contemporanei del racconto breve (che conosciamo bene
vista la nostra raccolta Trenta racconti italiani), che più di mezzo secolo dopo dichiara:
“Durante questi feroci anni di paternità, di solito non
avevo il tempo, o l’animo, di pensare di lavorare a qualcosa di molto lungo. Le
circostanze della mia vita […] non me lo permettevano. Le circostanze della mia
vita con questi bambini imponevano qualcos’altro. Dicevano che se volevo
scrivere qualcosa, e portarla a termine, e se volevo essere soddisfatto per un
lavoro ultimato, dovevo dedicarmi ai racconti o alle poesie. Cose brevi: avrei
potuto sedermi e, con un po’ di fortuna, scrivere rapidamente e farcela.”
(R. Carver, Voi non sapete che cos’è l’ amore, p. 52)
Al contrario di Anderson, non fa dichiarazioni di poetica:
per lui il racconto breve è l’unico modo possibile per portare a termine
una narrazione. Eppure, mi sembra che Carver sia l’autore a cui meglio si
addice l’idea che il racconto breve sia una forma narrativa costitutivamente
americana. O, sarebbe meglio dire, della provincia americana, quei vasti
territori interrotti solo da piccoli abitati su cui autori come Anderson ed
Hemingway hanno rivolto lo sguardo. Infatti, se è vero che la scelta della
narrativa breve è stata imposta a Raymond Carver dalla vita instabile
che conduceva, c’è anche un motivo più profondo per cui l’autore la
privilegia:
“Per scrivere un romanzo, mi sembrava, uno scrittore
dovrebbe vivere in un mondo dotato di senso, un mondo in cui poter credere, da
poter mettere a fuoco per bene e su cui poi scrivere accuratamente. Un mondo
che, almeno per un certo tempo, rimanga fisso in un posto. Inoltre, dovrebbe
esserci una specie di fiducia nella correttezza di quel mondo. Fiducia nel
fatto che il mondo conosciuto abbia una ragion d’essere, e che valga la pena di
scriverne, che non vada tutto in fumo mentre lo fai. Non era questo il tipo di
mondo che conoscevo io e nel quale vivevo.”
(R. Carver, Voi non sapete che cos’è l’ amore, p. 54)
Il mondo che Carver conosce meglio, quello di cui scrive, è
la vasta e umida provincia del Pacific Northwest americano. Qui, i suoi
personaggi vivono quasi sempre in un dopo: si sono già lasciati alle
spalle la fiducia nel mondo, i sogni di successo, l’idea che la tenacia e il
lavoro avrebbero permesso loro di realizzare qualcosa di buono. La
felicità esiste solo come ricordo, o come breve rivelazione, incapace di durare
più di pochi attimi. Non ci vengono mai raccontate le avventure dei
protagonisti, ma il momento in cui, dopo aver raggiunto la consapevolezza del
fallimento, ci si chiede come continuare a vivere.
Il mondo che Carver conosce meglio è la vasta e umida
provincia del Pacific Northwest americano
Nel racconto Dì alle donne che usciamo (Di cosa
parliamo quando parliamo d’amore), uno dei protagonisti arriva addirittura a
compiere un gesto di violenza estrema, uccidendo due ragazze. L’omicidio,
lo scoppio di un istinto di aggressività irrefrenabile, è la reazione
estrema a un mondo che, carico di promesse, ha poi tradito il giovane
Jerry:
“Quando Bill e Linda si sposarono, Jerry gli fece da
testimone. Naturalmente il pranzo di nozze lo fecero al Donnelly Hotel, con
Jerry e Bill che facevano gli spiritosi insieme, si mettevano a braccetto e
buttavano giù un bicchiere dopo l’altro di punch corretto. Ma in mezzo a tanta
baldoria, a un certo punto Bill guardò Jerry e pensò che sembrava più vecchio,
molto più vecchio dei suoi ventidue anni. A quel punto Jerry era padre felice
di due bambine, era stato promosso a vicedirettore dei grandi magazzini Robby’s
e Carol ne aveva già un altro in arrivo.”
(Dì alle donne che usciamo, Di cosa parliamo quando parliamo
d’amore, p. 48)
Eppure, quella di Jerry è una delle poche azioni
estreme che si trovano nei racconti di Raymond Carver.
Perlopiù i suoi personaggi si tormentano chiedendosi che
fine abbia fatto la felicità conosciuta in passato, anche se per breve
tempo:
“– E quando eravamo solo dei ragazzi, prima di sposarci? –
fa Holly. – Quando avevamo grandi progetti e grandi speranze? Te lo ricordi? –
Era seduta sul letto, stringendosi le ginocchia e il bicchiere.
– Sì che me lo ricordo, Holly.
– Non sei stato il mio primo ragazzo, sai, il mio primo
ragazzo si chiamava Wyatt. Immagina un po’, Wyatt. E tu ti chiami Duane. Wyatt
e Duane. Chi lo sa che mi sono persa in tutti quegli anni. Però ero felice. Sì,
sul serio. Tu eri tutto per me, come nella canzone.”
(Gazebo, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, p.
22)
Non a caso, la fine dell’amore è un tema su cui
l’autore torna continuamente: come ci si può ritrovare infelici, dopo aver
sposato la persona che si ama? Eppure, la durata limitata della felicità
sembra una condanna a cui non si può sfuggire, quasi una legge di natura
inspiegabile. Eccoci proiettati in pieno nel mondo di Carver: non è un «mondo
dotato di senso, un mondo in cui poter credere, da poter mettere a fuoco per
bene». Non è un mondo su cui poter scrivere un romanzo.
La fine dell’amore è un tema su cui Raymond Carver torna
continuamente
Molti dei suoi personaggi, soli e disorientati, trascorrono
le giornate in uno stato di intorpidimento generato dall’alcol, che
si trova al centro di diversi racconti; ne è un esempio Da dove sto
chiamando (Cattedrale), ambientato in un centro di recupero per alcolisti.
Il protagonista ha alle spalle un matrimonio fallito e sta cercando di portare
avanti una nuova, complicata relazione. Il primo giorno dell’anno, decide di
fare una telefonata:
“Tiro fuori delle monete dalla tasca. Proverò prima con mia
moglie. Se risponde, le farò gli auguri per l’anno nuovo. Ma tutto lì. Non
solleverò discussioni sui nostri affari. Non alzerò la voce. Neanche se cerca
di provocarmi. Mi chiederà da dove sto chiamando e dovrò dirglielo. […] Dopo
che avrò parlato con lei, chiamerò la mia ragazza. O magari chiamo prima lei.
Dovrò solo sperare che non prenda la linea suo figlio. – Ciao, tesoro, – le
dirò appena risponde. – Sono io.”
(Da dove sto chiamando, Cattedrale, p. 144)
Quel «sono io» è una risposta, seppur fragile, a una domanda
a cui non ci può sottrarre: dopo aver visto infrangersi i propri sogni
giovanili, che cosa resta da fare? È in questo spazio, seppur stretto, che
si gioca la nostra possibilità di scelta. Ed è qui che il mondo di Carver,
la provincia del nordovest americano, pur continuando ad essere una realtà ben
definita, assume anche un valore archetipico: la domanda che si pongono i
suoi personaggi non ha confini geografici.
E’ nella provincia del nordovest americano che il mondo di
Raymond Carver assume anche un valore archetipico
Il protagonista di Da dove sto chiamando decide di
lasciar andare il passato, di aggrapparsi a una relazione fragile e difettosa,
ma pur sempre reale. L’unico modo per farlo è tentare una telefonata, cioè
avere fiducia nella comunicazione. La stessa fiducia che Carver ripone
nella parola letteraria, a cui dà forma con uno stile asciutto ed
essenziale, basato su una convinzione più etica che estetica:
“In definitiva, le parole sono tutto quello che abbiamo,
perciò è meglio che siano quelle giuste, con la punteggiatura nei posti giusti
in modo che possano dire nel modo migliore quel che devono dire.”
(R. Carver, Voi non sapete che cos’è l’ amore, p. 38)
Le parole devono dire «quel che devono dire»: una tautologia
che esprime fino in fondo l’urgenza della ricerca di Carver, la sua necessità
di andare al cuore della realtà in cui si trova immerso. Una volta che sogni e
aspettative sono andate in pezzi – sembra dirci l’autore – credere nelle
possibilità della parola è quanto di più umano si possa fare :
“– Continui pure, – disse la signora Webster. – Capisco
quello che vuole dire. Continui pure a parlare, signor Carlyle. A volte fa bene
parlarne. A volte bisogna proprio tirare fuori tutto. E poi, ho voglia di
starla a sentire. Vedrà che dopo si sentirà meglio. Una volta anche a me è
capitata una cosa del genere, una cosa come quella che sta descrivendo lei.
L’amore. Ecco di cosa si tratta.”
(Febbre, Cattedrale, p. 183)
Avere fiducia nella comunicazione, la stessa fiducia che
Raymond Carver ripone nella parola letteraria
Nel soggiorno di una casa di provincia, un uomo racconta
alla governante che sua moglie ha abbandonato lui e i figli, distruggendo la
famiglia e il loro matrimonio. Nessun gesto grandioso, nessuna avventura:
solo la consapevolezza che, quando ci si rende conto di aver fallito, l’unico
modo per salvarsi è stabilire un legame sincero con qualcuno. Ecco a cosa
servono le parole: non vaghe e astratte, ma quotidiane e precise, che
aderiscano il più possibile alla realtà. Proprio come le parole dei racconti di
Raymond Carver.
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