Prendo spunto da un articolo che ho letto ieri su www.internazionale.it per fare qualche riflessione. In realtà, questo post voleva avere un altro titolo: "etichette", "frasi fatte", "punti di vista" o, più semplicemente, "stronzate". Ma il titolo dell'intervista, integralmente ripreso dal sottoscrito, mi è sembrato più consono. Perché questo titolo? Perché sono abbastanza stanco di urla, schiamazzi e frasi shock che sento quotidianamente a proposito dei soliti arogomenti, soprattutto da parte della sinistra, dal mio punto di vista particolarmente conservatrice. Iniziamo con il parlare di politica e del Governo Monti. Che sia vicino alle banche e non certo popolare (cioè, figlio del popolo) ma molto elitario questo sì. Che sia più di sinistra dei vari governi Prodi e D'Alema, anche! Per la prima volta si inizia a parlare e ad agire sui veri tagli alla politica, vedi, ad esempio, le decurtazioni degli stipendi dei manager. Piccoli passi ma significativi. Divorzio breve, cosa hanno fatto i "governi comunisti?" Nulla. Gli estremisti cattolici dei vari governi hanno sempre osteggiato ogni riforma che parlasse di divorzio, coppie di fatti, matrimoni gay. Stesso discorso vale per la legge elettorale, ora se ne sta parlando. Pare si risolverà questa vergogna dell'attuale legge entro la prossima primavera, quando la legislatura scadrà naturalmente. E non ditemi che sia per il divorzio che per la legge elettorale è il Parlamento a decidere e non il Governo. La mia risposta sarebbe scontata. Anni di accordi sottobanco, leggi ad personam e inciuci vari, alla faccia dei paladini del popolo. Ci arrabbiamo perché i politici rubano ma poi la G.F. scopre intere città che evadono. Ma sono tutti di destra gli evasori? Cari politici di "sinistra", volete salvaguardare le caste elettorali che poi vi daranno, dovrebbero darvi, il voto. Così facendo, siete più tradizionalisti del Vaticano. Capiamoci bene, la destra, eccessivamente liberista e xenofoba, e la Chiesa, continuano a non affascinarmi, ma voi partiti di "sinistra" siete ottusi e lontani dalla realtà con ancora più colpe. Guardate in faccia il 2012 e abbiate il coraggio di criticare i dipendenti pubblici che non hanno voglia di lavorare e i giovani che non hanno voglia di cercare un lavoro e pensate a difendere chi, giustamente, vuole un lavoro dignitoso e ben pagato.
Vorrei anche spendere due parole per il calcio, specchio del Belpaese. Il C.T. Prandelli parla di calcio pulito e di dimostrare quanti valori ha il football nostrano. Scusa??? Calcioscommesse, combine, dirigenti e presidenti farabutti e calciatori ignoranti, nel senso che ignorano la fortuna di poter vivere (lussuosamente) con quello che per 60 milioni di italiani è un hobby. Basta con queste frasi fatte, guardatevi in giro e aprite gli occhi. Il calcio è marcio quanto, se non di più, l'Italia. Ma essendo una delle industrie più importanti made in Italy, va bene così! Nessuna frase è troppo lunga, anche perché nessun imbecille sta mai zitto...
“Le
tue frasi sono troppo lunghe”, mi ha detto un’amica che insegna inglese
all’università, e ho capito che non intendeva farmi un complimento.
Il copy editor che ha riletto meticolosamente il mio ultimo libro
usava trattini gialli intorno alle mie proposizioni multiple per
suggerirmi di spezzare le frasi o metterci meno cose dentro. Entrambe le
reazioni non potevano essere più gentili e ragionevoli, ma quello che
forse la mia amica e il mio collega non hanno capito è questo: scrivere
frasi sempre più lunghe è il mio modo di protestare – e insieme cercare
di salvare i miei eventuali lettori – contro il bombardamento delle
frasi brevi.
Quando ho cominciato a guadagnarmi da vivere scrivendo, ho avuto
l’impressione che il mio lavoro consistesse nell’offrire al lettore
qualcosa di rapido e concreto, che non si potesse ottenere in altra
forma: uno scrittore era una macchina per raccogliere dati, pensavo, e
come giornalista avevo il compito di andare per il mondo e raccogliere
dettagli, appunti visivi e immediati come quelli della televisione.
Avevamo bisogno soprattutto di fatti. Ed ero convinto – e lo sono ancora
– che se guardavi il mondo abbastanza da vicino potevi intuire in
anticipo le sue mosse, come capita con un fratello o un amico: Don
DeLillo o Salman Rushdie non sono mistici, ma sono in grado di dirci
dove andrà il mondo domani perché lo seguono molto attentamente.
Eppure, al giorno d’oggi il pianeta si muove troppo rapidamente anche
per un Rushdie o un DeLillo, e molti di noi abitanti del mondo
privilegiato hanno accesso a più informazioni di quante ce ne servano.
Desideriamo fortemente qualcosa che ci liberi dal sovraffollamento
contingente e ci consenta di vedere le cose in una prospettiva più
ampia.
Nessuno scrittore può competere, in rapidità e immediatezza, con gli
sms, le notizie flash della Cnn o i feed rss, ma qualsiasi scrittore può
cercare di restituirci la profondità, le sfumature – gli “spazi vuoti”
come li chiama Annie Dillard – che su molti schermi non appaiono. Non
tutti vogliono essere ridotti alla clip di un’intervista o a un adesivo.
E qui entra in scena (spero) la frase lunga: una raccolta di
proposizioni così sfaccettata e generosa e abbondante nei toni e nelle
suggestioni da poter contenere la quasi-contraddizione, l’ambiguità e
tutti quei luoghi della memoria o dell’immaginazione che non possono
essere semplificati o tradotti in parole povere, e consentire al lettore
di conservare nella mente e nel cuore tante cose insieme mentre scende,
come lungo una scala a chiocciola, sempre più in profondità dentro se
stesso e dentro quelle cose che non si lasciano comprimere in un “o
questo/o quello”. Ogni proposizione ci porta sempre più lontano da
conclusioni banali – o almeno questa è la speranza – e lontano dal
riduzionismo, come se lo scrittore fosse un dentista che dice “apra di
più” per poter sondare gli spazi più teneri e trascurati del lettore
(anche se in questo caso non si occupa della bocca ma dello spirito).
“Si avvertiva un’umiltà condiscendente”, scrive Alan Hollinghurst in
una frase che ho scelto quasi a caso dal suo ultimo romanzo, The
stranger’s child, “mentre lei varcava la porta ed entrava nella stanza
più grande, ma più buia, della biblioteca, un accenno di fragilità, una
posa nel portare male i suoi 59 anni, un lieve barcollio frastornato in
mezzo a tanta grandiosità che, adesso, la figlia doveva fingere di dare
per scontata”. Vi capiterà di notare – ma non siete tenuti a farlo – che
“umiltà” ha ceduto rapidamente il passo a “posa” modificando il punto
di vista alla fine della frase, mentre l’attraversamento fisico delle
stanze accompagna un graduale movimento interiore che procede attraverso
quattro proposizioni parallele, ognuna delle quali – anche se in legato
– suggerisce una visione leggermente diversa delle cose.
Molti lettori non hanno tempo per queste cose: William Gass o sir
Thomas Browne possono sembrare logorroici, l’equivalente di chi volesse
andare in macchina da Los Angeles a San Francisco passando per la Death
valley, Tijuana e le Sierras. E un bravo scrittore, un Hemingway o un
James Slater, riesce a infilare parecchie sfumature e suggestioni anche
nella frase più breve e fulminante.
Ma oggi troppo spesso usiamo una scrittura telegrafica che banalizza i
nostri pensieri e riduce i nostri sentimenti a slogan. La frase breve
domina negli sproloqui sempre uguali dei talk show radiofonici e nelle
risse televisive, i cui protagonisti considerano la competenza o la
complessità come un insulto alla loro integrità (e non, come invece
sono, il più bell’ornamento dell’integrità).
Di questo passo, perderemo intere aree dell’esperienza emotiva e
cognitiva. Non saremo più in grado di leggerci l’un l’altro se non
riusciamo a seguire le frasi labirintiche di Proust, che ci conducono in
quei territori poco illuminati in cui il ricordo sfuma
nell’immaginazione, e dove noi ci nascondiamo dalle persone care o
puniamo la cosa che amiamo. E come potremmo percepire le
stratificazioni, l’estensione, le molte facce di Istanbul in tutta la
sua sovraffollata ampiezza, senza la frase di settecento parole con cui
Orhan Pamuk ha reso omaggio al grande amore della sua vita?
Idealmente, prendere in mano un libro significa entrare in un mondo
di intimità e continuità: i libri migliori ci trasportano in un universo
più ampio, in uno stato d’animo più spazioso affine alla sensazione che
provo quando ascolto Bach (o i Sigur Rós) o guardo un film di Terrence
Malick. Adoro la prosa di Thomas Pynchon (quella di Mason & Dixon,
per esempio), non solo perché è bella, ma perché le sue frasi lunghe e
impeccabili mi portano, una proposizione dopo l’altra, sempre più
lontano dal normale e dal prevedibile, e sempre più in profondità verso
dimensioni che non avevo neppure osato contemplare.
Philip Roth non mi stanca mai, perché – quando dà il meglio di sé –
l’energia e la complessità delle sue frasi mi trascinano in un
infervorato contraddittorio in cui vedo una mente viva, che si
interroga, ferocemente controllata nel suo rapporto con il mondo. La sua
è una prosa che bandisce la semplicità senza mai rinunciare alla
passione.
Non tutti i creatori di frasi piene di virgole, però, sono uguali.
Personalmente trovo illeggibile Henry James, con le sue proposizioni che
si susseguono con pedante ed enfatica pignoleria, riflettendo non tanto
la sua capacità di osservazione quanto la sua incapacità di decidere o
portare a conclusione alcunché: una specie di balbettio mentale. Ma
quello che promette la frase lunga è di portarvi oltre l’ignoto, lontano
dalla costa, verso profondità e misteri che non sareste in grado di
raggiungere né con la mente né, molto spesso, con le parole.
Quando leggo il modello assoluto in questo senso, Herman Melville – o
sento montare la tensione quando la Lettera dal carcere di Birmingham
di Martin Luther King comincia a gonfiarsi di proposizioni bibliche
elencando ogni singola cosa che la gente di colore non può fare – ho la
sensazione di uscire dalla cultura affollata e fluorescente del
supermercato locale, e di essere trasportato in un luogo altissimo da
cui posso vedere nel tempo e nello spazio, in me stesso e nel mondo.
È come se, per un attimo, fossi stato salvato dal caos frenetico della
superstrada e ricondotto a qualcosa dentro di me, dove c’è posto per la
certezza e per il dubbio insieme.
Io amo i libri: li leggo e li scrivo per la stessa ragione per cui
amo parlare con un amico per dieci ore, non dieci minuti (se non
addirittura, come nel caso della media delle pagine web, dieci secondi).
Più tempo dura la nostra conversazione, meno mi sento sospinto e
costretto dentro le scatole asfittiche del bianco o nero, repubblicano o
democratico, noi o loro. La frase lunga è il modo in cui cominciamo a
liberarci dalla meccanicità degli elenchi puntati e dalla disumanità
delle caselle da barrare con un si o un no.
Ci sarà sempre posto per la frase breve, e non c’è nessuno che si
entusiasmi più di me per le inquietanti magie di Don DeLillo, sempre più
minacciose a ogni nota ripetuta, o per la saggezza compressa di un
Oscar Wilde: è l’elegante concisione delle loro frasi che ci permette di
comprendere le idee di un Emerson (o di un Lao Tzu) come se fossero
comandamenti o proverbi di uso universale.
Ma oggi di brevità e velocità ne abbiamo a palate. Quello che voglio è
qualcosa che mi sostenga e mi allunghi finché non scatta qualcosa, che
mi porti così al di là di una semplice proposizione o di una singola
formulazione da farmi ritrovare all’improvviso in un luogo spazioso e
strano come la vita stessa. La frase lunga apre proprio quelle porte che
una frase corta richiude con un colpo. Anche se la frase che ho spedito
al mio copy editor era brevissima: “No”.
Pico Iyer è uno scrittore britannico di origine indiana. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La strada aperta. Vita e pensiero del XIV Dalai Lama. Questo articolo è uscito sul Los Angeles Times con il titolo “The point of the long and winding sentence“. Intervista apparsa su www.internazionale.it del 29.02.12.
Riprendiamoci il nostro tempo. Esercitiamo l'abilità di pensare e di confrontare idee e pensieri diversi, andando a fondo su tutte le sfumature i distinguo e le sovrapposizioni. Ma ancora di più, impariamo a prenderci il tempo di ascoltare. E di capire. Tempo. Fino a che non si è capito. Tempo. Quello che sembra già finito la mattina quando ti svegli già stanco di una vita fatta di corsa e con poche soddisfazioni. (... e non parlo di soldi. Quelli sono molti meno.) Tempo si entrae nei pensieri di un'altro... di fare quattro passi con le scarpe di un'altro. Per cscoprire, magari, che ti piacciono di più le tue. O anche no. Anche io mi prendo del tempo. Ed ora attendo paziente la fine della tempesta. E attendo che i vecchi squali, imbonitori di folle, quelli che oggi sembrano spariti, tornino alla carica. ...quando l'unico uomo che poteva, avrà fatto quello che loro, per non perdere (voti e) privilegi non avevano nemmeno accennato.
RispondiEliminaPerchè mentre guardiamo che cercano di cambiare quello che ha fatto dell'italia un pasese del terzo mondo anche se ha una sedia al G8, Non scegliamo di essere e dicambiare davvero. Di prendere quella strada nuova ma di sistemare con sufficienza e toppe quella vecchia. Che porta alla rovina. Nonostante Monti stia operando con un buon cipiglio ed una lodevole intenzione, non vedo ancora il germe del nuovo. Dell'innovativo. Del rischio oltre le lobby, le cazzate, la mafia, i partiti e le multinazionali. Spero lo veda. Spero lo trovi, perchè altri non vivano come ho vissuto io l'illusione di qualcosa che potrebbe accadere e che non accade mai.
Chapeau!!!
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