Buongiorno.
Curiosamente il mercato digitale va bene perché qualcuno ci ha investito... strano!
L'articolo completo lo trovate qui: ilfoglio.it/editoriadigitale.
P.S. Sono anche questi libri, che vi vada bene o no. Lasciate che ognuno legga come gli pare, già siamo in pochi a leggere, se poi vi mettete a fare la morale sui libri...
Non solo banca, non solo finanza, non solo immobiliare.
Insospettabili attori di mercato si muovono a Milano sul filo di lana
dell’innovazione e surfano le macrotendenze del panorama internazionale
collezionando primati italiani, sì, ma anche europei e un giorno, chissà, come
fossimo a Shanghai. Parliamo nientepopodimeno che di editori. Gregari di una
classe economica in naftalina, condivisori di grame prospettive a brevissimo
periodo, ma soprattutto, portatori sani, da almeno un paio di secoli, di
paralisi della visione nel top management: analisi così consolidate da essere
diventate uno stereotipo inconfutabile? Solo all’apparenza: la milanesità
agganciata all’alta velocità global non ama lamentarsi e che l’editoria non
faccia mai niente di nuovo diventa niente di più falso.
Almeno per l’editore leader: Mondadori... secondo la presentazione di dati e strategie fatta dal gruppo di Segrate
alla stampa, con focus sul mercato digitale: leadership di audience virtuale
(dati Audiweb) con 26,5 milioni di utenti agganciati online ogni mese (l’80 per
cento da mobile). Leadership nel mondo reale con il cartaceo, con 18 milioni di
lettori (Audipress) dei magazine Mondadori (70 per cento donne e 8 milioni in
più rispetto al secondo player). Leadership di mercato pubblicitario con la
concessionaria Mediamond. Leadership di notorietà: cinque su sei tra i brand di
testata che albergano nella mente degli italiani si rivelano, in risposta
spontanea, Mondadori... Sicché basta editore, che è parola analogica: “Chiamateci “mass
media digitale verticale””, ha invocato Andrea Santagata, head of digital
magazine del gruppo.
Ora però la domanda sorge spontanea, specie nel milanese
pragmatico e nel londinese confuso: come hanno fatto? I manager del settore
periodici Italia, guidati dal 2012 da Carlo Mandelli, sono i primi ad ammettere
che il nuovo stile della casa è partito sganciando, due anni fa, una bella
cifra per mettersi in salotto qualcuno che certe cose le sapeva già fare
benissimo, come Banzai Media Holding, la divisione vertical content del Gruppo
Banzai, “l’Amazon italiana” oggi ePrice: 45 milioni di euro ben spesi. Almeno a
sentire i risultati conseguenti: al momento 300 utenti al secondo entrano in un
sito web Mondadori e 14 di loro ingaggiano sui social dei periodici del gruppo
una conversazione, chiedono un’informazione o si crogiolano nel “caring”,
l’assistenza online elargita ad utenti con dubbi e domande sui contenuti e
servizi digital che stanno usando. Insomma, le uniche che per numeri superano
Mondadori Periodici online al momento sono le property internazionali: Google,
Amazon e company.
Tutto questo è possibile grazie ad una visione
autarchica che è unica in Italia e tra le poche in Europa, tanto da risultare
un asset distintivo: a Segrate sono in 180 a curare la produzione dei contenuti
digitali, tutta interna, compreso lo sviluppo. In un settore dove l’outsourcing
è la regola, una controtendenza importante, roba da New York Times, a
dimostrare che “content is king”: 60mila articoli, 170mila foto, 10mila video
l’anno, di cui quelli comprati sono meno del 40 per cento. Naturalmente tutto
questo ha anche un costo quotidiano: realizzare una ricetta finita per Giallo
Zafferano (che ad aprile diventa il primo sito parlante in Europa), ad esempio,
costa tra i mille e i 1500 euro e ogni anno Mondadori fa 60 mila euro di spesa
alimentare (ma non si butta via niente: in redazione si mangia a tutte le ore,
tra dipendenti e ospiti). Infatti di ricette se ne genera una al giorno e si
cerca di venderla in ogni modo e su ogni mezzo...
Fin qui tutto bene. Ma le strategie per il futuro? Altre
factory, ancora più video, ancora più influencer, più instagrammer, content to
commerce, proximity marketing (quello che se ti geolocalizzo dentro una
libreria ti notifico sull’app in tempo reale che Einaudi fa il 25 per cento di
sconto), progetti speciali (cioè eventi) per i clienti pubblicitari,
innovazione costante delle testate... Ma soprattutto incarnare in Italia e in Europa il modello
dell’editore del futuro, che crea e distribuisce contenuti con una logica omnichannel:
i brand al centro e intorno tutti i possibili touch point da integrare a 360
gradi, magazine, sito web, canale tv, licensing e una cosa che si chiama focus
dive, cioè un mega evento tipo quello di Focus lo scorso anno, che ha visto
15mila persone pagare per godersi contenuti scientifici garantiti Focus nel
mondo reale. Lo fanno, assicurano, perché ormai è il digitale quello che
permette di cambiare il segno meno in segno più nel fatturato: sui quasi 300
milioni di euro di giro d’affari dei Periodici Italia tra circulation e
pubblicità, la raccolta advertising del digitale, che pesa per circa un terzo,
è aumentata dal 2017 al 2018 dal 27 per cento al 32 per cento. Per questo tra
poco non potremo più nemmeno chiamarli periodici, né giornali, né prodotti, ma
“vertical brand”.
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