L'articolo di cui vi parlo oggi l'ho letto a fine gennaio, completo lo trovate qui: ilfattoquotidiano.it/problemadicuradeilibri.
Si parla della cura di libri, dal punto di vista degli editori. Cosa che poi si riversa, almeno in parte a detta mia, sui lettori.
...ma
chiama in causa tutti gli editori e un certo modo di pubblicare i libri:
sempre meno curato anche nella impaginazione, nella grafica, non solo nella
selezione dei contenuti. ...a prevalere è l’urgenza di
arrivare in libreria, pur sapendo che la partita sarà durissima perché sempre
meno persone considerano il libro un oggetto necessario e sempre più
potenziali acquirenti preferiscono andare sulla rete e lì viaggiare tra mille
sollecitazioni oppure seguire serie tv anche sofisticate e ben fatte, quindi in
sintonia con i gusti e le attese di un lettore forte e ben attrezzato.
L’unico modo ... per contrastare la
perdita di lettori è la qualità, qualità dei contenuti e della confezione,
dell’oggetto libro, in quanto unico, da secoli uguale a se stesso. Le cose da
dire importanti sono ancora oggi depositate nei libri, mentre in rete e sui
social tutto è volatile, superabile, provvisorio, come se le parole
prendessero un’altra velocità e non fossero le stesse di quelle della carta
stampata. “Ho scritto un libro” è ancora diverso da dire “ho
scritto un post”. Un libro, su carta o digitale non importa, è costruito grazie
a una combinazione di parole che presuppone un disegno, un’impalcatura logica
capace di reggere per molte pagine.
Il libro rappresenta l’ordine della mente, è
innanzitutto un atto formale che risponde a un impianto di norme codificate.
Tutto il mondo sta lì dentro, in una gabbia con una giustezza definita, una
spaziatura regolata, un’interlinea, un’altezza pagina… Se vogliamo, autore ed
editore insieme ogni volta che pubblicano un libro pensano di mettere ordine
nel disordine del mondo e lo fanno spinti da una vena di temerarietà e
presunzione, come se fosse un atto stravagante, quasi una magia e ogni
autore avesse la formula segreta per raccontare in quel modo, cioè in quel
numero di righe, in quelle pagine, con quelle parole, il senso o il non senso
del mondo.
Fino ad oggi il libro apparteneva al nostro immaginario,
oggetto tra gli altri oggetti, seppure particolare, ora la rivoluzione
digitale ne ha rivelato tutta la sua intrinseca originalità, fino a
farne un oggetto a parte, in più.
Se le cose stanno così, se trascuriamo la “bellezza” del
libro cominciando a togliere dall’impalcatura quegli elementi che ne fanno
un unicum, è possibile che esso diventerà sempre più uguale ad altri contenitori di
parole, con il rischio, non calcolato, che ci perderemo in un mare disordinato
di parole (i 140 caratteri di Twitter...). La nostra storia e la nostra identità si
appoggiano sui libri, sono lo specchio di noi stessi, di quello che siamo,
senza di loro, senza quella misura, quell’ordine, siamo niente.
La mia domanda è: quindi gli editori stanno perdendo il senso di identità di essere editore, oppure sono "schiavi" del sistema e di conseguenza devono adattarsi al nuovo sistema, cioè produrre tanto e di qualità dubbia?
Fonte: web |
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