sabato 6 maggio 2017

Perché si pubblica

Ripropongo in parte un bellissimo - molto completo e competente - articolo che ho sul Post, completo lo trovate qui: ilpost.it/initaliapubblicanotantilibri, che tratta del perché in Italia si pubblicano tanti, troppi, libri. 
L'articolo è molto lungo ma non vale come lettura di un libro! 😉
...In Italia il numero di titoli pubblicati continua a crescere anno dopo anno, anche se i lettori diminuiscono. L’offerta funziona indipendentemente dalla domanda. Escludendo – almeno in parte – che sia un mondo di pazzi votati a lavorare in perdita, bisogna capire quali meccanismi di mercato spingano gli editori a continuare ad aumentare la quantità di libri e sapendo che più della metà ritorneranno indietro perché non saranno comprati (e che non potranno essere usati per farne scalini).
...Basta guardare le serie storiche: nel 1919 furono pubblicate 5.390 novità; nel 1956 erano più o meno le stesse: 5.653; nel 1970 salirono a 15.414; nel 1984 arrivarono a 21.063... Nel 1998 furono 56 mila... Oggi – il dato è del 2015 – i nuovi titoli pubblicati sono schizzati a 65 mila di carta, il 6,5 per cento in più rispetto all’anno precedente, a cui si aggiungono 63 mila ebook. Significa che ogni giorno escono in media 178 nuovi libri di carta, e 350 nuovi titoli in totale. Nel 2015 il catalogo “vivo” – cioè i libri in commercio di cui effettivamente si vende qualche copia – era di 906.481 titoli (+5,2% sul 2014). Sempre nel 2015 gli editori italiani che hanno pubblicato tra i 10 e i 60 titoli all’anno erano 1.005, un po’ più dell’anno prima.
In compenso i lettori calano: nel 2015 in Italia  33 milioni di persone non hanno letto neanche un libro, 4 milioni e 300 mila in più rispetto al 2010. Per vendere almeno una copia di ogni libro in commercio – quantità che sarebbe comunque fallimentare – tutti i lettori dovrebbero comprare 23 libri all’anno ciascuno, praticamente due al mese. Invece si sa che dei 23 milioni di lettori italiani (di cui la metà abita in comuni dove non c’è una libreria), 10 milioni hanno letto al massimo 3 libri all’anno, 9 milioni tra i 4 e gli 11 libri e soltanto 3 milioni un libro al mese (i dati vengono dal rapporto Chi è il lettore di libri in Italia?, presentato il 20 aprile dall’Associazione italiana editori a Tempo di libri, la fiera di Milano, e non considerano i bambini sotto i 6 anni, che pure contribuiscono in modo significativo al mercato).
...I libri aumentano nonostante la diminuzione dei lettori per molte e complesse ragioni, che hanno a che fare con:
1. le caratteristiche merceologiche del libro;
2. il permanente valore socio-culturale del libro;
3. il progressivo miglioramento delle tecnologie di produzione che hanno ulteriormente abbassato i costi d’accesso all’editoria, permettendo a chiunque di auto-pubblicarsi;
4. le modalità di vendita del libro.
I libri sono prodotti industriali, ma non possono essere prodotti in serie come, per dire, le scatolette di tonno. Ogni libro è diverso e ogni volta si ricomincia da capo. Non è possibile fare troppe previsioni. Per quanto i modi di produzione siano industriali e standardizzati, l’editoria rimane legata all’artigianato e ha qualche somiglianza con il gioco d’azzardo. Questo spinge gli editori ad aumentare il numero di titoli nella speranza di imbroccare il bestseller che metterà a posto i conti (o a puntare sulle serie, specialmente su poliziotti e investigatori privati che permettono di cercare di fidelizzare i lettori e farli crescere uscita dopo uscita).
Il valore di un libro non si misura soltanto in termini economici. Un libro conserva un valore sociale e culturale che va al di là dei soldi che fa guadagnare. I libri sono usati anche come biglietti da visita che danno all’editore e all’autore non solo prestigio, ma anche una sorta di indotto fatto di presentazioni, collaborazioni, eventuali finanziamenti istituzionali. È il prestigio sociale e il guadagno indiretto la vera ragione di esistenza di centinaia di editori che lavorano in perdita e di migliaia di autori che, di fatto, lavorano gratis. È impossibile quantificarle, ma certamente molte case editrici sopravvivono perché garantiscono a persone con qualche soldo di svolgere un’attività che gode di buona reputazione e di ripianare le perdite quando è il caso (non è una critica, fare l’editore non è il modo peggiore per spendere i propri soldi).
Aprire una casa editrice non richiede grandi investimenti iniziali. La soglia di accesso è sempre stata relativamente bassa. Negli ultimi decenni il miglioramento delle tecnologie di stampa e l’avvento della stampa digitale hanno ulteriormente abbassato i costi e di conseguenza il numero minimo di copie da stampare per accedere sul mercato. Per questo, anche in Italia, all’editoria tradizionale si stanno affiancando, con un peso sempre maggiore, i libri auto-pubblicati. Per Paola Dubini, che si occupa di editoria e insegna all’Università Bocconi di Milano, il digitale è la ragione principale della proliferazione di titoli degli ultimi anni: «La prima accelerazione degli anni Sessanta e Settanta fu determinata dal boom economico e dall’alfabetizzazione. Credo che quella degli ultimi vent’anni sia dovuta all’abbassamento dei costi di stampa e all’aumento dei libri autopubblicati», dice al Post.
A queste ragioni se ne aggiunge una quarta: la vendita di libri funziona in modo da rendere più conveniente per l’editore, almeno sul breve periodo, aumentare il numero di titoli.
...L’editore incassa sul distribuito, ma guadagna sul venduto. È un meccanismo finanziario che favorisce l’incremento di produzione anche in assenza di vendite. Se un editore riesce a distribuire 5mila copie di un libro da 10 euro, riceve un assegno pari al 40 per cento della merce che ha immesso sul mercato (il 60 per cento va al distributore che rivende i libri al libraio con uno sconto del 35-38 per cento sul prezzo di copertina). Con questi 20 mila euro l’editore paga il tipografo, la carta, il grafico e la redazione. Ma siccome il pagamento avviene dopo almeno tre mesi, i soldi deve anticiparli di tasca propria o fare una fideiussione con una banca, dando in garanzia l’assegno.
In editoria, al contrario che in ogni altro mercato, esiste il diritto di resa: cioè il libraio rende i libri che non ha venduto e si fa ridere i soldi dall’editore sotto forma di sconti sugli acquisti successivi. In Italia le rese sono mediamente del 60 per cento: significa che dopo tre mesi, ai 20 mila euro iniziali bisognerà sottrarre 12 mila euro, e in più pagare il distributore per riportare indietro i libri invenduti. La strada più semplice per uscirne è stampare un altro libro, in modo da avere un altro assegno, e così via nella speranza di imbroccare il titolo che metta a posto i conti. Aumentare la produzione è la tentazione di ogni editore per mantenere il fatturato inalterato anche quando le vendite calano. Anche perché le rese vengono messe a bilancio come attivo, sebbene in realtà costituiscano un passivo: è merce invenduta che difficilmente si riuscirà a vendere in futuro, che occupa spazio e che costerà altri soldi quando verrà mandata al macero.
Naturalmente non va sempre così. Può succedere che un libro o più di uno vendano tutte le copie della prima tiratura e siano ristampati. In questo caso l’editore guadagna e può ripianare le perdite. Inoltre gli editori sanno che aumentare i titoli porterà al fallimento nel medio-lungo periodo. Quelli che resistono stanno attenti a non farlo. Secondo Sellerio – l’editore che forse ha guadagnato di più in Italia negli ultimi anni – una delle defficoltà più grandi è resistere alla tentazione di aumentare la produzione e rinunciare a libri che si pubblicherebbero volentieri. Ma se le cose vanno male – e vanno male spesso – pubblicare di più nella speranza di trovare un bestseller può apparire l’unica strada possibile.
Per spezzare questo meccanismo, qualche anno fa Riccardo Cavallero e Valerio Giuntini, all’epoca direttore generale e direttore commerciale di Mondadori,  ora a SEM, cercarono di convincere i librai ad adottare un sistema diverso, cioè a condividere i rischi con l’editore: il diritto di resa sarebbe rimasto solo sulle novità, ma in cambio gli editori avrebbero stabilito quante copie fornire; mentre i libri di catalogo sarebbero stati acquistati dal libraio nella quantità desiderata, ma senza diritto di resa. Un’altra proposta, diretta ai piccoli editori, prevedeva di vendere in conto deposito, cioè che i librai pagassero alla fine solo i libri che avevano effettivamente venduto. Naturalmente i librai si rifiutarono, perché il diritto di resa e il potere di ordinare ogni titolo nella quantità desiderata sono strumenti grazie a cui riescono faticosamente a sopravvivere. L’idea non era troppo condivisa neppure dagli altri editori, a cominciare da molti azionisti e manager della stessa Mondadori, perché avrebbe determinato un calo di fatturato sugli anni successivi e impedito le campagne promozionali, cioè gli sconti, un altro trucco grazie a cui gli editori riescono a liberarsi in parte del magazzino.
...Gli editori guadagnano se riescono a vendere un titolo, e quando succede – avendo ripagato le spese industriali – guadagnano tanto. I librai guadagnano se tengono basse le spese, ma riescono ad avere una buona rotazione e un buon flusso di cassa. I distributori, invece, guadagnano sempre, sia sui libri venduti che su quelli che non compra nessuno. Il distributore, cioè, è il perno su cui il sistema si regge, e non ha alcun interesse a cambiarlo. 
...Nonostante l’automatizzazione non risulta che l’incidenza dei costi di distribuzione sia calata. L’altro attore editoriale che guadagna, infatti, è Amazon: la cui forza si basa proprio sull’automatizzazione della distribuzione. Perché un libro venda bisogna che sia visibile e perché sia visibile occorre distribuirlo nel maggior numero di librerie possibili in una quantità sufficiente. Raggiungerle costa e costringe l’editore ad aumentare le copie e, quindi, le rese. Questo è vero anche nel caso delle grandi catene, dove gli acquisti sono centralizzati. Perché un titolo sia visibile per esempio nelle librerie Feltrinelli, occorre mandare un certo numero di copie in ogni libreria della catena, anche in quelle dove non se ne venderà nemmeno una. Amazon salta un passaggio. E non sposta copie inutilmente. Il libro raggiunge il lettore partendo da un posto solo (il deposito principale è a Castel San Giovanni, Piacenza, ha 900 dipendenti ed è grande 100 mila metri quadrati, come 14 campi da calcio; ne sta aprendo un altro di 60 mila metri quadri a Passo Corese, in provincia di Rieti; e ne è attivo un altro più piccolo ad Affori, Milano, per i clienti Prime).
Questo permette ad Amazon di avere un catalogo virtualmente infinito – i titoli in lingua italiana attualmente acquistabili sono 15.190.256, contro il milione scarso di quelli presenti in tutte le librerie italiane – e di guadagnare sulla cosiddetta “coda lunga“, il fenomeno economico teorizzato da Chris Anderson per spiegare l’economia della rete: vendere anche poche copie lentamente fino a quando le scorte non saranno esaurite. In questo modo la rotazione si azzera e le rese crollano, permettendo ai libri di sopravvivere molto più a lungo. Le librerie fisiche non possono farlo per mancanza di spazio, ulteriormente ridotta dalla pressione crescente delle novità in arrivo. Il problema di Amazon è che i libri si comprano anche per caso, quando vengono visti su uno scaffale, e che chi acquista online generalmente sa già cosa comprare (sempre più spesso c’è chi va su Amazon – o su Ibs, che fa capo a Messaggerie – dopo avere avvistato il libro in una libreria tradizionale). Senza finestre reali sul mondo difficilmente riuscirà a intercettare l’interesse distratto, e a suscitare il passaparola, che è poi il vero meccanismo che crea un bestseller. Amazon tenta di rimediare online puntando sui consigli («Chi ha acquistato questo articolo ha acquistato anche…», «Spesso comprato insieme a…») e sugli estratti dei libri. Nel mondo reale, invece, punta sulle librerie fisiche che sta aprendo negli Stati Uniti e, anche in Italia, sull’editoria.

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