martedì 25 luglio 2017

L'importanza di leggere

Oggi vi invito a leggere una intervista, completa la trovate qui: edizionisur.it/leggeresempre, ad uno scrittore importante ma che non conosco per nulla: Roberto Bolaño. L'estratto che vi presento è dell'ultima conversazione con la scrittrice messicana Carmen Boullosa. Parla dell'importanza delle lettura.

...Riecheggiando le parole dello stesso Bolaño: «Leggere è più importante che scrivere». Leggere Roberto Bolaño, per esempio. Se qualcuno pensa che la letteratura latinoamericana non stia attraversando un momento splendido, basta che dia un’occhiata a qualche sua pagina per scacciare l’idea. Con Bolaño, la letteratura – quella bellissima, inspiegabile bomba che distruggendo ricostruisce – dovrebbe sentirsi orgogliosa di una delle sue migliori creazioni.
Questa conversazione si è svolta, via computer, tra Blanes e Città del Messico nell’autunno del 2001.
Carmen Boullosa: In America Latina ci sono due tradizioni letterarie che il lettore medio tende a considerare opposte, antitetiche, o decisamente nemiche: quella fantastica (Adolfo Bioy Casares, il miglior Cortázar) e quella realista (Vargas Llosa, Teresa de la Parra). C’è anche una sorta di leggenda che colloca nel Sud dell’America Latina la patria del fantastico e nel Nord l’epicentro del realismo. A mio avviso, tu raccogli i frutti di entrambi i versanti: i tuoi romanzi e racconti sono invenzioni di fantasia e al tempo stesso sono uno specchio critico, caustico della realtà. Seguendo il filo del ragionamento, aggiungerei che questo accade perché hai vissuto ai due capi dell’America Latina: sei cresciuto in Cile e in Messico. Ti piace l’idea o la trovi assurda? Se devo essere sincera, a me sembra abbastanza illuminante, ma non mi convince fino in fondo: i migliori scrittori, i più grandi (compreso Bioy Casares e il suo contrario Vargas Llosa) hanno sempre attinto a tutte e due le tradizioni. Eppure, dal punto di vista del Nord di lingua inglese c’è una tendenza a confinare la letteratura latinoamericana all’interno di una sola tradizione.
Roberto Bolaño: Io credevo che i realisti venissero dal Sud, cioè dai paesi del Cono Sud, e che gli scrittori di letteratura fantastica venissero invece dalla parte centrale e settentrionale dell’America Latina, se proprio vuoi badare a queste suddivisioni, che non andrebbero mai e poi mai prese sul serio. La letteratura latinoamericana del Novecento si è mossa o per imitazione o per rifiuto, e probabilmente accadrà lo stesso a quella del nuovo secolo, almeno per i primi trent’anni. In linea di massima, l’uomo imita o rifiuta i grandi monumenti, mai i piccoli gioielli quasi invisibili. Noi abbiamo pochissimi scrittori che abbiano coltivato il genere fantastico in senso stretto, anzi forse nessuno, fra le altre cose perché il sottosviluppo economico non consente una letteratura di genere. Il sottosviluppo consente solo capolavori. Le opere minori, in questo paesaggio monotono o apocalittico, sono un lusso irraggiungibile. Naturalmente questo non significa che la nostra letteratura sia piena di capolavori, tutto il contrario; significa semplicemente che all’inizio uno scrittore aspira a realizzare tali aspettative, ma poi la stessa realtà che le ha fatte sorgere provvede in vario modo a stroncarle. Penso che ci siano solo due paesi con un’autentica tradizione letteraria che qualche volta sono riusciti a sfuggire a questo destino: l’Argentina e il Messico. Quanto alle mie opere, non so che dire. Suppongo siano realiste. Mi piacerebbe essere uno scrittore fantastico, come Philip K. Dick, anche se man mano che il tempo passa e invecchio, Dick mi sembra sempre più realista. In fondo – e penso che sarai d’accordo con me – la questione non sta nella distinzione realista/fantastico ma nel linguaggio e nelle strutture, nel modo di guardare alle cose. Sai, non avevo idea che ti piacesse così tanto Teresa de la Parra. Quando ero in Venezuela, la gente me ne parlava spesso. Naturalmente, non l’ho mai letta.
Teresa de la Parra è una delle più grandi scrittrici che abbiamo, o dei più grandi scrittori, e quando la leggerai mi darai ragione. La tua risposta conferma appieno l’idea che l’elettricità che scorre nel mondo letterario latinoamericano si muove in modo abbastanza casuale. Non direi che è debole, perché all’improvviso lancia scariche che infiammano tutto il continente, ma solo di tanto in tanto. Comunque, non siamo del tutto d’accordo su quello che io considero il canone. Tutte le divisioni sono arbitrarie, ovviamente. Quando pensavo al Sud (al Cono Sud e all’Argentina), pensavo a Cortázar, alle storie deliranti di Silvina Ocampo, a Bioy Casares e a Borges (quando hai a che fare con autori del genere, le graduatorie non contano: non c’è un numero uno, hanno tutti pari importanza), e pensavo a quel romanzo breve e vago di María Luisa Bombal, L’ultima nebbia, la cui fama forse è dovuta soprattutto allo scandalo, visto che aveva ucciso il suo ex amante. Io metterei Vargas Llosa e la grande Teresa de la Parra nel Nord. Ma poi le cose si complicano, perché quando vai ancora più a nord trovi Juan Rulfo ed Elena Garro con Una stabile dimora (1958) e I ricordi dell’avvenire (1963).
Tutte le divisioni sono arbitrarie: non c’è realismo senza fantasia e viceversa.
Nei tuoi racconti e romanzi, e forse anche nelle tue poesie, il lettore intuisce sia regolamenti di conti sia omaggi, e sono componenti importanti della loro struttura narrativa. Non voglio dire che i tuoi siano romanzi a chiave, ma la loro alchimia potrebbe celarsi in un misto di amore e odio davanti ai fatti che narri. Come lavora quel maestro alchimista che è Roberto Bolaño?
Non credo che ci siano più regolamenti di conti nelle mie opere che nelle pagine di qualsiasi altro autore. Insisto a costo di sembrare pedante (anche se probabilmente lo sono comunque): quando scrivo l’unica cosa che mi interessa è la scrittura, cioè la forma, il ritmo, la trama. Rido di certi atteggiamenti, certe persone, certe occupazioni e certi toni solenni, semplicemente perché quando ti trovi davanti a sciocchezze del genere, a ego così ipertrofici, non ti resta altra scelta che ridere. Tutta la letteratura, in un certo senso, è politica. Voglio dire che è innanzitutto una riflessione sulla politica, e poi anche un programma politico. Il primo postulato allude alla realtà, all’incubo o al sogno benevolo che chiamiamo realtà e che finisce, in entrambi i casi, con la morte e l’abolizione non solo della letteratura ma anche del tempo. Il secondo postulato si riferisce alle briciole che sopravvivono, che permangono, e alla ragionevolezza, pur sapendo naturalmente che nella scala umana delle cose la permanenza è un’illusione, e che la ragionevolezza è solo un fragile steccato che ci impedisce di precipitare nell’abisso. Ma non badare a quello che ho appena detto. Suppongo che uno scriva per via della propria sensibilità, tutto qui. E tu perché scrivi? È meglio che non me lo dici, sono sicuro che la tua risposta sarebbe molto più eloquente e persuasiva della mia.
D’accordo, non te lo dico, e non perché la mia risposta possa essere in qualche modo più persuasiva. Una cosa però devo dirtela: se c’è una ragione per cui non scrivo, è proprio la sensibilità. Per me scrivere significa lanciarmi in una zona di guerra, sventrare corpi, lottare con resti di cadaveri, e poi cercare di mantenere il campo di combattimento intatto, ancora in vita. E i «regolamenti di conti» mi sembrano ben più feroci nel tuo lavoro che in quello di tanti altri scrittori latinoamericani.
Agli occhi del lettore, la tua risata ha un’azione molto più corrosiva, demolitrice. Nei tuoi libri, i meccanismi interni del romanzo funzionano in modo classico: una fabula, una finzione coinvolge il lettore e allo stesso tempo lo rende complice della demolizione dei fatti che tu, romanziere, stai raccontando con estrema fedeltà. Ma mettiamo per un attimo da parte questo discorso. Nessuno che ti abbia letto può dubitare della tua fede nella scrittura. È ovviamente la prima cosa che attrae il lettore. Chiunque voglia trovare in un libro qualcosa di più della scrittura – per esempio, un certo senso di appartenenza, come membro di qualche club o associazione – non si sentirà a suo agio davanti ai tuoi romanzi e racconti. Quando ti leggo, non cerco la storia, la rievocazione di questo o quel frammento del passato più o meno recente di qualche angolo del mondo. Pochi scrittori sono bravi quanto te a sedurre il lettore con scene concrete che diventerebbero nature morte, frammenti inerti nelle mani di autori «realisti». Se appartieni a una tradizione, come la chiameresti? Dove sono le radici del tuo albero genealogico e in quale direzione crescono i rami?
A dire il vero, non credo così tanto nella scrittura. A partire dalla mia. Fare lo scrittore è piacevole – no, piacevole non è la parola giusta – è un’attività che ha i suoi momenti divertenti, ma conosco cose che sono ancora più divertenti, divertenti nello stesso modo in cui lo è per me la letteratura. Rapinare banche, per esempio. O dirigere un film. O fare il gigolò. O tornare bambino e giocare in una squadra di calcio più o meno tremenda. Sfortunatamente, il bambino cresce, il rapinatore viene ucciso, il regista resta al verde, il gigolò si ammala e allora non resta altra scelta che scrivere. Per me, scrivere è l’esatto opposto di aspettare. Invece dell’attesa, c’è la scrittura. Be’, probabilmente sbaglio, può darsi che scrivere sia una forma di attesa, di procrastinazione. Mi piacerebbe pensarla in un altro modo. Ma, come ho detto, probabilmente sbaglio. Quanto alla mia idea di canone, non so, è come quella di tutti, sono quasi imbarazzato a dirtela, per quanto è ovvia: Francisco de Aldana, Jorge Manrique, Cervantes, i cronisti delle Indie, Sor Juana Inés de la Cruz, Fray Servando Teresa de Mier, Pedro Henríquez Ureña, Rubén Darío, Alfonso Reyes, Borges, giusto per fare qualche nome senza uscire dall’ambito della lingua spagnola. Naturalmente mi piacerebbe invocare un passato letterario, una tradizione, anche molto breve, fatta di due o tre scrittori (e forse un solo libro), una tradizione sfolgorante incline all’amnesia, ma da un lato sono troppo pudico nel mio lavoro e dall’altro ho letto troppo (e troppi libri mi hanno reso felice) per indulgere in un’assurdità del genere.
Non ti sembra arbitrario prendere in considerazione esclusivamente autori di lingua spagnola? O intendi inserirti nella tradizione ispanica come corrente separata dalle altre lingue? Se gran parte della letteratura latinoamericana (specie la prosa) è impegnata in un dialogo con altre tradizioni, direi che tu lo sei ancora di più.
Ho fatto i nomi di autori che scrivevano in spagnolo solo per limitare il canone. Ovviamente non sono uno di quei mostri nazionalisti che leggono solo ciò che produce il paese dove sono nati. Mi interessa la letteratura francese, Pascal, che prevedeva la propria morte, e la sua lotta contro la malinconia, che adesso mi sembra più ammirevole che mai. O l’ingenuità utopistica di Fourier. E tutta la prosa, tipicamente anonima, degli scrittori di corte (certi manieristi e certi anatomisti), che in qualche modo portano alla sterminata caverna del marchese de Sade. Mi interessa anche la letteratura statunitense dell’Ottocento, soprattutto Twain e Melville, e la poesia di Emily Dickinson e Whitman. Da ragazzino, ho avuto un periodo in cui leggevo solo Poe. Insomma, mi interessa la letteratura occidentale, e credo di conoscerla un po’ tutta.
Leggevi solo Poe? Ho l’impressione che nella nostra generazione circolasse un virus di Poe molto contagioso; era il nostro idolo, e non faccio fatica a immaginarti contagiato da ragazzino. Però, a quei tempi, eri un poeta, e io voglio passare alla narrativa. Decidi tu la trama o è la trama che sceglie te? E se non va in nessuno dei due modi, come funziona? Il consulente di Pinochet sul marxismo, lo stimatissimo critico letterario che chiami Sebastián Urrutia Lacroix, sacerdote dell’Opus Dei, o il guaritore che pratica il mesmerismo, o i poeti adolescenti dei Detective selvaggi, tutti questi personaggi hanno un omologo storico, perché?
È vero, le trame sono una cosa strana. Credo, sia pure con qualche eccezione, che a un certo punto una storia ti scelga e non ti lasci più in pace. Per fortuna, non è una cosa così importante: la forma, la struttura, continuano ad appartenerti, e senza forma e struttura non c’è libro, o almeno nella maggior parte dei casi è così che va. Diciamo che la storia e la trama arrivano accidentalmente, che rientrano nel campo del caso, cioè del caos, del disordine, o in quel territorio in continuo tumulto che qualcuno definisce apocalittico. La forma, viceversa, è una scelta che si compie usando l’intelligenza, l’astuzia e il silenzio, le armi usate da Ulisse nella sua battaglia contro la morte. La forma cerca l’artifizio, la storia cerca il precipizio. O per usare una metafora della campagna cilena (pessima, come vedrai): non è che non mi piacciano i precipizi, ma preferisco vederli da un ponte.
Le scrittrici vengono sempre tormentate con una domanda e non resisto alla tentazione di infliggerla anche a te, se non altro perché a forza di sentirla è ormai di rito. Quanto materiale autobiografico racchiudono le tue opere? In che misura sono un autoritratto?
Un autoritratto? Poco o niente. Un autoritratto richiede un certo tipo di ego, la propensione a guardarti e riguardarti, un interesse esplicito per ciò che sei o sei stato. La letteratura è piena di autobiografie, alcune ottime, ma gli autoritratti tendono a essere pessimi, anche quelli in poesia, che a prima vista sembrerebbe un genere più adatto agli autoritratti della narrativa. Mi chiedi se le mie opere sono autobiografiche? In un certo senso sì, come potrebbero non esserlo? Ogni opera letteraria, persino l’epica, è in parte autobiografica. Nell’Iliade contempliamo i destini di due alleanze, di una città, di due eserciti, ma contempliamo anche i destini di Achille e Priamo ed Ettore, e tutti questi personaggi, queste voci individuali, riflettono la voce, la solitudine, dell’autore.
Quando eravamo due poeti giovani, ancora adolescenti, e condividevamo la Città del Messico degli anni Settanta, tu eri il leader di un gruppo di poeti, gli infrarealisti, che hai mitizzato nel tuo romanzo I detective selvaggi. Raccontaci qualcosa del significato che aveva la poesia per gli infrarealisti e della loro Città del Messico.
L’Infrarealismo era una specie di Dada alla messicana. A un certo punto c’era un sacco di gente, non solo poeti, ma anche pittori e soprattutto sfaccendati e vagabondi, che si consideravano infrarealisti. In realtà eravamo solo in due, io e Mario Santiago. Nel 1977 andammo entrambi in Europa. Una sera, nella stazione ferroviaria di Port-Vendres, che è molto vicina a Perpignan, nel Roussillon, dopo alcune avventure disastrose, decidemmo che il movimento in quanto tale era finito.
Forse era finito per voi, ma nei nostri ricordi era ancora vivissimo. Eravate il terrore del mondo letterario. All’epoca io facevo parte di una comunità seria, solenne; il mio mondo era così disgregato e informe che avevo bisogno di aggrapparmi a qualcosa. Mi piaceva il tono cerimonioso delle letture di poesia e dei ricevimenti, quegli incontri assurdi pieni di riti a cui in qualche modo aderivo, e voi eravate i terroristi di quegli appuntamenti. Quando, tanto tempo fa, nel 1974, fui chiamata per la prima volta a leggere le mie poesie alla libreria Gandhi, mi misi a pregare Dio – non che credessi davvero in Dio, ma avevo bisogno di invocare qualcuno – e lo imploravo: per favore, non far venire gli infrarealisti. Avevo il terrore di leggere in pubblico, ma l’ansia che nasceva dalla mia timidezza non era nulla in confronto al panico che provavo al pensiero di essere messa in ridicolo: a metà lettura, gli infra potevano irrompere nella sala e darmi della scema. Voi venivate per convincere il mondo letterario che non poteva prendersi così sul serio per opere che non erano affatto serie, e che con la poesia (per contraddire il tuo adagio cileno) si trattava proprio di buttarsi in un precipizio. Ma fammi tornare a te e alle tue opere. Ti sei specializzato nella narrativa – è impensabile che qualcuno possa definire i tuoi romanzi «lirici» – eppure sei anche un poeta, un poeta in attività. Come fai a conciliare le due cose?
Nicanor Parra dice che i migliori romanzi sono scritti in metrica. E Harold Bloom dice che la migliore poesia del Novecento è scritta in prosa. Sono d’accordo con entrambi. Eppure trovo difficile considerarmi un poeta in attività. Per quanto ne so, un poeta in attività è uno che scrive poesie. Io ti ho mandato le ultime che ho scritto ed erano pessime, temo, anche se naturalmente, per gentilezza e tatto, mi hai mentito. Non lo so. C’è qualcosa nella poesia. In ogni caso, l’importante è continuare a leggerla. È più importante che scriverla, non credi? A dire la verità, leggere è sempre più importante che scrivere.

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