Pubblico integralmente un articolo sull'abbandono della pratica sportiva dei ragazzi. Pubblicato dalla Gazzetta (www.gazzetta.it), l'articolo è della Bocchi, parla di riflessioni molto interessanti sull'abbandono sportivo, di Maurizio Mondoni, vecchia conoscenza per noi cestisti, che condivido in pieno. Il problema è che molti colleghi che, a parole, condividono queste rifdlessoni, poi nei fatti sono degli sfruttattori sportivi dei minori. Evito altre riflessioni perché poi sarebbe facile scadere nel banale. Io la mia parte la faccio in palestra!
Aggiungo un elemento di cui non si parla nell'articolo: la crisi economica. L'attuale momento difficile si sta abbattendo anche nel mondo dello sport. Le famiglie, capita sempre più spesso, non mandano più i ragazzi a fare attività sportiva perché non se lo possono più permettere.
Buona lettura.
L’80% dei bambini italiani in età pre-puberale pratica
almeno uno sport, ma verso i 14 anni, proprio durante la fase di
sviluppo più delicata e in cui l’attività fisica sarebbe un vero
toccasana per la crescita del ragazzo a livello fisico, psicologico e
sociale, questo esercito di mini atleti si riduce drasticamente.
Divenuti adolescenti, la metà di loro abbandonano. Cosa succede? Quali i
motivi di questa improvvisa disaffezione? Il fenomeno, denominato “drop
out”, sempre più diffuso, ha attirato l’attenzione di numerosi
psicologi, terapeuti, istruttori che hanno individuato attraverso i loro
studi varie e differenti motivazioni. L’agonismo esasperato fin da
giovanissimi. Il risultato a tutti i costi. L’illusione preclusa di
divenire dei campioni. Nuovi interessi. Genitori e, in genere ambiente
esterno, troppo esigenti e pressanti. Il venire meno di divertimento e
motivazioni. All’origine dell’abbandono, quindi, non un’unica causa, ma
più elementi spesso concomitanti. Ma, come ci dice Maurizio Mondoni,
docente di Teoria, tecnica e didattica dei giochi sportivi al Corso di
laurea in Scienze Motorie e dello Sport all’Università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano: “Per capire il perché un ragazzo improvvisamente
lascia un’attività sportiva che ha praticato per anni è necessario
comprendere quali sono le molle iniziali che gli hanno fatto decidere di
intraprenderla. E tra queste su tutte il divertimento, la gioia di
giocare, di fare parte di un gruppo, conoscere nuovi amici. Se i giovani
non trovano soddisfatti questi loro bisogni primari, lasciano”.
La vittoria ad ogni costo —
Molte volte, tuttavia, nell’attività motoria proposta dagli adulti non
c’è gioco, gioia e allegria. Al loro posto pressioni eccessive, agonismo
esasperato, allenamenti noiosi. “Sono molti gli allenatori molto più
preoccupati a vincere o a non perdere – precisa Maurizio Mondoni -
piuttosto che interessati alla prestazione dei propri atleti. Chiedere o
pretendere da un bambino, fin dalla sua prima esperienza sportiva, la
vittoria ad ogni costo, magari promettendo anche ricompense, può
influenzare negativamente il processo di sviluppo delle sue motivazioni a
continuare a praticare lo sport. Se a questo si aggiunge un inadeguato
supporto emotivo nei momenti delicati degli insuccessi e delle
sconfitte, si creano le premesse per cui il bambino giocherà non tanto
per se stesso, ma per le richieste, per lui a volte incomprensibili, del
nostro mondo fatto a misura di adulto”.
L’importante è la prestazione, non il risultato
—
La componente agonistica è innata: a nessuno piace perdere. Ha per altro
anche una valenza positiva per la crescita psichica ed emotiva degli
adolescenti, ma va assolutamente rifiutata come filosofia e unico
obiettivo, come un qualcosa di indispensabile per essere accettati e
avere successo. “E’ fondamentale insegnare ai ragazzi a gestire la
sconfitta e a utilizzare gli errori - precisa Mondoni -, credendo in
loro, apprezzando i loro sforzi e sollecitandoli continuamente a essere
volonterosi e tenaci. Il giovane non ha fallito se, pur perdendo, ha
dato il massimo. Ogni atleta desidera essere rinforzato per la qualità
della sua prestazione più che per la vittoria. Se un giovane commette un
errore non lo si deve punire, ma fargli capire dove ha sbagliato e cosa
dovrebbe fare per correggersi, utilizzando un linguaggio sempre
positivo. Quando l’atleta è a conoscenza che il suo allenatore vuole il
massimo dal suo impegno e per questo è rinforzato, non avrà più paura di
provare e riprovare, accrescendo così la propria autostima. Al
contrario, se il giovane si aspetta di essere premiato solo in base al
risultato, pensando alle possibili conseguenze negative delle sue
iniziative, avrà il timore di fallire, mostrando ansia e insicurezza”.
Per prevenire l’abbandono —
E’ stato ampiamente dimostrato che esasperare l’attività agonistica in
età precoce, da non confondersi con un avviamento precoce all’attività
motoria e al gioco, è la strada sbagliata, quella che con maggiori
probabilità porta al “drop out”. Per evitare che ciò accada si deve
affrontare il problema alla radice. “All’inizio si deve far giocare il
bambino allo sport – prosegue Mondoni – e non fargli praticare lo sport.
Gli allenamenti devono essere divertenti, interessanti, didatticamente
validi, con obiettivi legati all’età e al livello di maturazione di
ciascuno. L’allenatore non deve essere un leader autoritario, ma
autorevole, non deve essere troppo permissivo, ma empatico, motivatore,
stimolatore, entusiasta. Deve potere instaurare con i ragazzi un dialogo
sincero e creare un clima di gruppo positivo, in cui si respiri aria di
collaborazione, fiducia, sostegno e stima reciproca. Infine, i
genitori, pur essendo assolutamente indispensabili nell’organizzazione
pratica delle giornate dei propri figli, devono interferire il meno
possibile, evitando di esercitare pressioni e di riversare su di loro
eccessive aspettative”.
Leggo tante cose belle nelle parole di Mondoni. Tante cose così lontane dalla realtà del nostro basket che ho i brividi. Se posso aggiungere qualcosa, credo che sia una questione di cultura. Lo sport è cultura, forma i corpi è vero, ma plasma anche le menti, la volontà, l'anima, l'atteggiamento alla vita. Magari non solo ai ragazzi ma anche a qualche genitore, molto spesso incapaci di separare la prestazione del figlio dalle proprie aspettative (se non dai propri insuccessi). E non presidiare questo aspetto lo trovo da "cultura da repubbica delle banane". Appoggiare e premiare la qualità e la crescita degli allenatori sarebbe compito dell'amministrazione pubblica (politica?) e nn di qualche sparuto sponsor che oltre al suo marchio sulle maglie (a volte improbabile) magari ci guadagna (o non ci perde) con qualche fattura falsa. Quando lo stato è sordo a questo, quando lo sport viene condiderato alla "panem e circensis" Berlusconiano, quando anche la nostra Regione stanzia per lo sport 0 (zero) Euro, allora la vedo veramente dura.
RispondiEliminaChi ha parlato di CULTURA (scuola, sport, ricerca, ecc. anche la sanità è cultura!) in campagna elettorale? Nessuno. Poi ci si riempie la bocca di belle parole davanti a una TV, solo ed esclusivamente per proprio tornaconto.
RispondiEliminanon c'è molto da spiegare...
RispondiEliminac'è che mi sento completo solo quando indosso quella divisa..
c'è che mi sento che posso volare quando metto quelle scarpe..
c'è che il mondo non esiste più quando prendo in mano quel pallone..
c'è che il rumore della retina è la mia musica preferita..
c'è che quando non posso giocare muoio ogni volta un po'..
c'è che quando esco dal campo, lascio lì una parte di me..
c'è che non posso farne a meno..
c'è che è come una droga per me..
c'è che non è solo un gioco..
c'è che è la mia vita..
Questo devono provare i nostri figli sin da piccoli..